METAPOESIA E POESIA AUTOREFERENZIALE NEL NOVECENTO ITALIANO
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LUCIA DELLA PIETA'
2012
2 Desidero ringraziare innanzitutto il professor Edoardo Esposito, per l'aiuto fondamentale e per i consigli, per il sostegno, l'attenzione e la sollecitudine che mi ha dimostrato durante gli anni del dottorato e nella preparazione di questa tesi. Ringrazio anche il Collegio Docenti del dipartimento di Filologia Moderna e il coordinatore del dottorato professor Francesco Spera per l'opportunità e l'incoraggiamento; la professoressa Rossella Fabbrichesi e il dottor Federico Leoni per la
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... a filosofica. Dedico questo lavoro alla mia bimba che nel frattempo è nata 3 Metapoesia e poesia autoreferenziale nel Novecento italiano 4 Indice Premessa La poesia allo specchio ___pg.6 Capitolo I La metapoesia 1.1 Presentazione dell'ipotesi___pg.13 1.2 Primi esempi in libertà___pg.15 1.3 La questione metapoetica___pg.21 1.4 Come procedere...___pg.24 1.5 ...e dove procedere___pg.30 Capitolo II Per una categorizzazione 2.1 Chi è il poeta?___pg.37 2.2 Il poeta, cosa canta?___pg.49 2.3 Come, la poesia?___pg.60 2.4 Cosa, la poesia?___pg.72 2.5 Dove, la poesia?___pg.84 2.6 Quando, la poesia?___ pg.97 2.7 Perché, la poesia?___pg.109 2.8 Metapoesia e Novecento___pg.124 Capitolo III Questioni teoriche: perché la metapoesia? 3.1 Un'ipotesi filosofica___pg.131 3.2 Una risposta tematica___pg.158 Bibliografia___pg.176 5 Dopo lungo silenzio Dopo lungo silenzio ora parliamo; estraniati o morti gli altri amanti, celata nella propria ombra la luce avversa della lampada, calate sopra la notte avversa le cortine, giusto è che dibattiamo senza fine il sommo tema dell'Arte e del Canto; è decrepito il savio; ci amavamo in giovinezza e s'era noi ignoranti. William Butler Yeats (tradotto da Eugenio Montale) 6 Premessa La poesia allo specchio La metapoesia, come decidiamo fin da subito di chiamare la poesia che ha per argomento la poesia e che parla quindi di se stessa, è un fenomeno ovvio e addirittura banale, ma al tempo stesso misconosciuto e ricco di implicazioni interpretative, che ritengo abbia sempre sofferto di una sorta di pacifico e assodato disinteresse, in qualità di manufatto letterario tanto ovvio quanto sostanzialmente poco o niente indagato e piuttosto considerato quasi solo di passaggio, non frontalmente, non come oggetto di un'interrogazione diretta e finalizzata. Invece, nella convinzione (che, come ovvio, ha avviato questo lavoro rimanendone però accresciuta a cose fatte) di una specifica validità teorica del fattore metapoetico, tanto più in relazione alla sua consistenza, ricorrenza e costanza, un simile disinteresse sembrava imporre l'indagine; e tuttavia fin da subito si sono manifestate non poche difficoltà operative, dovute proprio alla scarsezza dei riscontri critici effettivi che è possibile individuare, alla pochezza, cioè, di una critica relativa che offrisse una direzione iniziale e autorevole di riferimento sulla quale impostare un discorso, con l'obiettivo di imporre all'attenzione la presenza così notevole dell'autoreferenzialità poetica per gettare nell'arena dell'interesse teorico e dello studio critico i termini di una questione metapoetica. Se non mancano, infatti, occorrenze magari inosservate ma continue di una scrittura poetica autoriferita, l'assenza di critica che invece si sta segnalando ha imposto al procedere di questo lavoro alcune scelte preliminari di metodo. Innanzitutto ha determinato l'esigenza di accantonare ogni idea qualitativa e differenziale di poesia -e di poesia autoreferenziale -per adottare al suo posto "una visione quantitativa della letterarietà" (Fusillo, 2009, 68): un'immagine cioè collettiva e composta del fenomeno metapoetico e dei versi, talvolta altissimi e talvolta anche banali ma magari efficacemente esplicativi, che lo manifestano, secondo un'attenzione plurale necessaria per arrivare progressivamente, dopo molti testi e lunghe letture, a scorgere qualcosa nel multiforme, a isolare nella varietà le costanti; in considerazione di una rapportabilità ad altro che significa conoscibilità, come ci ha insegnato Francesco Orlando, dal momento che, infatti, "non si capisce né si conosce mai per intuizione diretta, ma sempre per confronto con qualcos'altro" (Orlando, 1983, 8). 7 L'indagine metapoetica ha preso così a tutti gli effetti l'aspetto in costruzione di un work in progress, voglio dire che si è posta fin da subito l'esigenza attiva di delineare gli elementi di interesse progressivamente, gradualmente, durante cioè, la stessa esposizione dei fatti: quasi che il lavoro dell'interpretazione procedesse davvero con l'indagine, senza precederla né seguirla, piuttosto svolgendosi parallelamente a un itinerario che si muove, tra somiglianze e differenze, attraverso le poesie che parlano di poesia. Un percorso metapoetico che, occorre anticiparne le caratteristiche fin da subito anche a scanso di equivoci e fraintendimenti, è stato lungo per necessità, e quindi ha in qualche modo sbilanciato la ricerca a favore dei versi e della loro lettura: perché solo dai versi, dal loro richiamarsi, sovrapporsi, contraddirsi o imporsi perentoriamente all'attenzione, ho ritenuto metodologicamente legittimo risalire a una qualsivoglia acquisizione teorica, e solo nella quantità si è lasciato infine scorgere il particolare di qualità. L'abbondanza di esemplificazione, che ci è sembrata dunque inevitabile e addirittura necessaria, per arrivare dall'osservazione empirica di una ricorrenza alla definizione della stessa, cercando ostinatamente nella lettura "il passo dall'occorrenza tematica alla categoria estetica" (Fusillo, 2009, 164), trova allora giustificazione nell'intenzione di lasciar parlare la poesia che scrive di se stessa, ascoltando quello che dice e chiedendosene, in seconda istanza, il perché. La decisione di percorrere e confrontare un gran numero di scritture poetiche autoreferenziali ha inoltre, e per diretta conseguenza, significato la necessità di offrirne un'analisi approfondita solo, come ovvio del resto, sub specie metapoesiae, mentre rimandiamo alle raccolte, ai saggi critici, alle antologie, agli approfondimenti monotematici che abbiamo usato e anche a quelli che non abbiamo usato, per tutte le osservazioni di inquadramento oltre che contestuale, soprattutto stilistico e metrico dei versi. Non certo per una qualche relatività o marginalità novecentesca di questi ultimi aspetti, dal momento che se in tempi di versoliberismo "la poesia moderna rinuncia spesso alla prosodia e alla metrica tradizionali" (Segre e Ossola, 2003, dalla Premessa), la sua veste grafica ne risulta anzi in qualche modo complicata e problematizzata 1 ; quanto piuttosto in rapporto alla scelta esclusiva e aprioristica di poesie che fossero in funzione di, vale a dire in funzione della questione dell'autoreferenzialità poetica novecentesca presa in esame, e che quindi si presentassero come le diverse tessere di un 1 Si vedano in proposito le pagine che affrontano la questione novecentesca del verso libero in Il Verso. Forme e Teoria, di Edoardo Esposito, Carocci, Roma, 2003. 8 mosaico di cui si poteva intuire il disegno e magari anche presagirne la bellezza, ma realmente ancora tutto da costruire. Per cercare di organizzare la quantità dell'esemplificazione metapoetica e finalizzarla all'indagine teorica abbiamo, pertanto, introdotto un principio di ordine, una forma chiusa di strutturazione; nello specifico, abbiamo organizzato il materiale multiforme vincolandolo a rispondere a un interrogativo ben preciso, riprendendo e adattando al nostro scopo, quindi ri-usando, le domande derivate dalle circostanze retoriche che la trattatistica medievale ricavò da Cicerone per farne una guida e una verifica alla correttezza dell'esposizione, fino a ottenere così alcune utili categorie interpretative: chi è il poeta e che cosa canta, come si scrive e che cos'è la poesia, da dove viene e quando, soprattutto perché. Il percorso attraverso queste domande e le riposte che una dopo l'altra incontravamo, ci ha portato lentamente e progressivamente, passo dopo passo, a scoprire, riconoscere e fissare alcune caratteristiche della scrittura autoreferenziale che, come vedremo, a volte confermano altre volte smentiscono, a volte affiancano altre volte sembrano invece sottrarsi alla critica della poesia e delle poetiche 'ufficiale', quella, cioè, che non prende corpo nei versi. Abbiamo scoperto, per esempio, nella metapoesia, un'idea di poesia ancora e malgrado tutto, sorprendentemente alta: nei versi, infatti, la poesia continua a vedersi riconosciuta una profondissima ragione d'essere, che la colloca come una pietra pura nel contesto della modernità, nella sua confusione e incertezza, nel caos, nel basso quotidiano, nella vita vissuta: a dimostrazione, con le parole di Ungaretti, "che la poesia non è un esercizio di retorica, né un esercizio puramente estetico, ma che la funzione della poesia è più profonda e ha il carattere di un'espressione veramente di salvezza" (Ungaretti, 1969, XXII). Nessun umanismo, classicismo o idealismo di sorta, comunque, mi preme che sia chiaro e fin da subito, piuttosto la contraddizione in sé risolta di una poesia che è tutto e niente, o meglio, secondo un nesso non di coordinazione ma di causalità, tutto perché niente e niente perché tutto: la poesia è quotidianità e banalità ma è anche, testardamente, cura e salvezza, se davvero, infatti, "questa funzione terapeutica o semplicemente lenitiva della poesia novecentesca è tutt'altro che secondaria e conta, per il posto che la poesia continua a occupare nel mondo, molto più di quanto si sia in genere disposti a riconoscere" (Gardini, 2002, 206). Poesia, dunque, come rappresentazione -quasi in senso teatrale, di azione scenica -del contradditorio, possibile forse solo, e momentaneamente, nei versi: nell'essere di questa 9 contraddizione la metapoesia sembra infatti trovare la sua ragione, motivandosi e motivando la propria presenza costante e ricorrente, come si vedrà subito, nei termini di una costruzione dell'identità. Innanzitutto: fondazione di un'identità linguistica, in quanto testo scritto che è poesia, secondo una prospettiva ontologica del crearsi linguisticamente dicendosi, sulla scorta della centralità, evidenziata dalla ricorrenza e persistenza nella scrittura autoreferenziale, del verbo 'nominare', che ha funzionato per noi come un segnale, una spia verbale scelta per introdurre con la sua presenza la riflessione della poesia su se stessa. Il nominare, l'atto del dare un nome, che implica concettualmente la complicata relazione tra la parola e la cosa, si manifesta nell'invocazione, formulata per esempio, come vedremo, da Jiménez, ma da un punto di vista novecentesco ampiamente condivisa in sede metapoetica, "que mi palabra sea / la cosa misma": che, dunque, la parola sia la cosa stessa, e la poesia la sua costituzione. In seconda istanza, il processo autoreferenziale di costruzione dell'identità si configura come ambizione di un'identità letteraria, cioè di genere, del genere poetico ovviamente, nel momento in cui la tematica metapoetica compare a garantire il riconoscimento esistenziale della poesia: "inevitabile quindi che essa risulti segnata da una più o meno marcata venatura metalinguistica, ora esplicita ed esibita, ora introflessa e sotterranea; ma in ogni caso attiva e generalizzabile, e non come artificio tecnico, bensì in definitiva come condizione di esistenza della scrittura in versi" (Cucchi e Giovanardi, 1996, XIV). Il metalinguismo come condizione di esistenza della scrittura in versi, la metapoesia come suo atto di fondazione: questa idea di esistenzialità ("che forse si può indicare come il carattere peculiare della lirica contemporanea: apertura estrema alla dimensione esistenziale, assunzione radicale della storicità dell'esistenza", secondo quanto afferma Maria Carolina Foi, in Trakl, 2004, XII) mi sembra non solo sottoscrivibile ma addirittura centrale. Come si vedrà, infatti, mettendo insieme e facendo reagire l'uno con l'altro i vari elementi che abbiamo letto nei versi dell'autoreferenzialità poetica, con l'obbiettivo di comprendere la necessità non rimandabile di comporne, siamo arrivati a riconoscere la ragione ultima di questa necessità poetica di scrivere metapoesia nell'istituzione di una qualità iniziale della parola, che assume una sua propria capacità performativa e, nominando e nominandosi, si costruisce una identità poetica e letteraria. 10 Le pagine che seguono vogliono dunque essere la relazione del viaggio in questa direzione, tra i testi e sui testi nella difficoltà di un discorso che si sta facendo, che dal verso parte e al verso ritorna trovando in esso l'indicazione della strada teorica da seguire, con la certezza tuttavia che la metapoesia entri di diritto per la sua valenza ermeneutica nella particolare "esperienza post-moderna della verità" che, come sappiamo, "è un'esperienza estetica e retorica" (Vattimo, 1999, 20); oltre che, naturalmente, nella studio della poesia, nella sua scrittura come nella lettura. Partiamo subito, dunque, e cominciamo a leggere, in poesia ovviamente, cosa succede -"una luce verde" oscura "il cielo ", "la gente sfugge" " per un senso remoto di tempesta / o di contrasto tra gli elementi", si accendono "vampe" "sulla città" mentre "cala un gran silenzio" -quando la poesia legge poesia, in questi versi del poeta, argentino di nascita ma italiano d'adozione 2 e spesso di scrittura, Juan Rodolfo Wilcock Quando tu, mia poesia, leggi poesia Quando tu, mia poesia, leggi poesia, si oscura il cielo di una luce verde, la gente sfugge la riva del mare per un senso remoto di tempesta o di contrasto tra gli elementi, vampe si inalberano sui fili dei tram, e un gran silenzio cala sulla città: è la poesia che contempla se stessa. Leggi parole di un tempo scomparso, di un presente che crolla senza sosta velocemente nell'informe passato, leggi di re e corone, giardini e guerre, tu che sei la corona di ogni impero e il giardino del mondo conosciuto e la guerra dei sensi della natura, leggi, "chi crederà i miei versi in avvenire se dico adesso tutto il tuo valore?" e accade in quel momento che quei versi come una freccia scagliata nei secoli raggiungono chi un giorno li ha ispirati. E allora il buio verde si fa totale, la gente si rintana, sopraffatta, e in un silenzio come di terremoto si alza la luna sui Castelli Romani e lentamente volge tutto all'azzurro, mentre tu, mia poesia, leggi poesia. 2 La poesia che presento è tratta dagli Italienisches Liederbuch, scritti infatti direttamente in italiano e pubblicati da Rizzoli nel 1974. 11 Nella promessa finale di quel "tutto" che "lentamente volge all'azzurro", nell'alchimia simbolica del colore 3 dell'arte, sta la poesia: "è la poesia che contempla se stessa", la poesia allo specchio, la metapoesia. 3 Si pensi solo, in proposito, alla valenza determinante di quella che potremmo chiamare la visione azzurra della poesia di Trakl, caratterizzata infatti dalla costante presenza dell'azzurro nelle sue continue occorrenze (qualche esempio quasi casuale: "L'anima tace l'azzurra primavera" in Nell'oscurità; "Di Dio l'azzurro respiro alita / entro la sala-giardino, / entro il giardino sereno" in Canzone spirituale; "Baluginante oscilla alla finestra aperta / la vite confusamente all'azzurro intrecciata, / dentro nidificano i fantasmi dell'ansia" in Sera tempestosa) e con la sua fittissima valenza di significati, che secondo la nota interpretazione heideggeriana del Luogo del poema di Georg Trakl vengono a coincidere con la"chiarità" e la sacralità : "L'azzurro non è immagine per esprimere il senso del Sacro. L'azzurro stesso è -grazie alla sua profondità che raccoglie [il disperso] e che splende solo nell'occultamento -il Sacro" (Heidegger, Il Linguaggio nella poesia, In cammino verso il linguaggio, 1973, 51). 12 Capitolo I La metapoesia 13 Presentazione dell'ipotesi Il punto di partenza di questo lavoro di ricerca è l'osservazione empiricainizialmente direi occasionale e apparentemente banale, progressivamente mirata e intenzionale -della ricorrenza nelle più varie opere poetiche di una particolarissima configurazione testuale che chiamiamo metapoesia: la poesia nella e sulla poesia, la poesia che parla di se stessa, una poesia doppia, che unisce la poesia come contenuto alla poesia come forma. La mia attenzione di lettrice di poesia veniva infatti continuamente attratta dal ripresentarsi di questa precisa combinazione poetica: poesie autoreferenziali che ho così cominciato a raccogliere, archiviare e meditare, a leggere avvicinando per somiglianza se non contrapponendo per differenza, nel tentativo di andare oltre all'immediatezza dell'evidenza non vista o dell'ovvietà inosservata per cercare di capire come e soprattutto perché tornassero facilmente nei diversi secoli nelle diverse lingue e nei contesti più lontani, da Saffo a Neruda, da Petrarca a Whitman, da Hölderlin a Leopardi a Mallarmé a Rilke, accompagnando in modo in qualche (ma quale?) misura prevedibile la scrittura poetica. La mia intenzione è dunque di procedere tra i versi, da una poesia all'altra, seguendo un'impressione testuale sulle tracce della questione metapoetica di cui verificare l'interesse, l'importanza e l'eventuale capacità ermeneutica; in questo senso mi sembra necessario esplicitare, fin da subito e con la massima chiarezza, che questo percorso lungo l'autoreferenzialità in poesia non può che essere di tipo comparativo: evidentemente le poesie che sceglierò di presentare non vogliono essere considerate in sé, monograficamente con intenzione analitica o secondo un giudizio di valore, per la qual cosa del resto non facciamo che rimandare alle antologie di storia letteraria, ma invece nel loro rapportarsi con altri testi precisamente ed esclusivamente, come dicevamo, in funzione del loro essere poesie sulla poesia, e quindi del riferimento a se stesse in quanto poesie esplicitamente espresso nella scrittura e che io intenzionalmente e dichiaratamente ho imposto come condizione tematica vincolante e preliminare a ogni altra considerazione. Per diretta conseguenza di questa impostazione la lettura orientata che voglio proporre deve inevitabilmente svilupparsi per approssimazioni successive, per approfondimenti continui: dalla primissima preoccupazione relativa al reperimento ad ampio raggio dei testi autoreferenziali che formino l'intelaiatura, l'ossatura necessaria a garantire e 14 sostenere il discorso, in una fase iniziale che potremmo facilmente definire per eccesso, fino all'individuazione di un'area più ristretta e di un corpus definito, questa volta invece con un'operazione di segno contrario, tagliando cioè e riducendo e selezionando, lavorando per focalizzazioni che scendano gradualmente nello specifico, per scoprire se al fondo resta qualcosa, e se resta, che cosa -sempre che non si voglia ancora una volta ammettere, con il poeta greco Odisseas Elitis 4 , che ... E' solo Poesia Quello che resta. Poesia. Giusta sostanziale e retta Come forse la immaginarono le prime creature Giusta nell'acerbo del giardino e infallibile nel tempo. 4 Da Odisseas Elitis, Elegie, Crocetti Editore, Milano, 1997, nella traduzione di Nicola Crocetti. 15 Primi esempi (in libertà) Mettiamo allora alla prova l'unità dell'oggetto tematico in questione e cominciamo in medias res proponendo subito alcuni testi poetici autoreferenziali, scelti, di associazione in associazione, se non altro per la loro rappresentatività in varie letterature e in maniera quasi casuale, vale a dire ancora in libertà, senza per ora aver fissato limiti precisi di spazio e di tempo 5 all'indagine (precisione che sarà poi invece necessaria di fronte a un argomento la cui promettente portata si chiarisce subito come molto vasta, e quindi anche rischiosa). Testi metapoetici, presentati solo in traduzione nel caso di versi stranieri, selezionati e arbitrariamente accostati per il momento volutamente in assenza di ogni impostazione interpretativa in relazione alla loro sola qualità di esempi, che a partire dalle differenze mostrino la ricorrenza semantico-formale che si vuole porre in evidenza e di cui dicevo, e che induce a stabilire un contatto e a creare interazioni a dispetto appunto della diversità e della maggior incidenza delle varianti: sono infatti tutti componimenti poetici incentrati a vario titolo e con varie soluzioni sulla poesia stessa. Voglio aprire questa prima esposizione di poesie con Baudelaire: innanzitutto per un personalissimo debito di riconoscenza, perché leggendo i suoi Fiori del male -e imponendo così alla mia ricerca il 1857 come temine post quem -mi sono trovata a riflettere sul richiamarsi autoreferenziale della poesia nella poesia e ho formalizzato un interesse avviando il mio lavoro di ricerca sulla tematica metapoetica, ma anche, come ovvio, per la sua influenza sulla produzione lirica successiva, per il suo essere "il poeta della modernità" ( Friedrich, 2002, 34), "il padre della poesia moderna -il primo dei veggenti, il re dei poeti, un vero Dio, come disse Rimbaud -e altresì il prototipo del poeta moderno" (Hamburger 1987, 5); in qualche modo dunque per la sua capacità di anticipare e fondare il Novecento, che infatti si riconoscerà, facendosene carico, nel ridicule di questo albatro-poeta contemporaneamente voyageur ailé in cielo e infirme sulla terra, condannato alla marginalità e allo scherno proprio dalla grandezza che lo distingue 5 Limiti che non siano quelli geografici stabiliti ad esempio da Francesco Orlando a proposito di comparatismo per la letteratura occidentale, che comprenderebbe "nord e sud del continente americano, l'intero continente europeo ovviamente e ancora fuori dall'Europa tutti quegli spazi che l'ex colonialismo può aver annessi a questa tradizione culturale" (in Letteratura e Letterature, 3, 2009, 167); e invece da un punto di vista cronologico ascrivibili indicativamente a una modernità novecentesca. 16 L'albatro Spesso, per divertirsi, gli uomini dell'equipaggio catturano gli albatri, vasti uccelli dei mari, che seguono, indolenti compagni di viaggio, il vascello che scivola sopra gli abissi amari. Non appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi, miseramente lasciano le loro grandi ali candide come remi arrancare strisciando accanto a loro. Come è impacciato e debole il viaggiatore alato! Lui, prima così bello, come è sgraziato e comico! Chi gli va stuzzicando il becco con la pipa, chi mima, zoppicando, lo storpio che volava! Il Poeta assomiglia al principe dei nembi Che pratica la tempesta e se la ride dell'arciere; esiliato a terra in mezzo agli scherni, le ali da gigante gli impediscono di camminare 6 . Alla ricerca dell'autoreferenzialità in poesia spostiamoci ora nello spazio e nel tempo fino alla Germania nazista negli anni della seconda guerra mondiale per leggere questa metapoesia (tradotta da Ruth Leiser e Franco Fortini) di Bertold Brecht, il cui titolo si chiarisce nell'esplicito rimando alla Storia Brutti tempi per la lirica Lo so: piace soltanto chi è felice. La sua voce volentieri la si ascolta. Bello è il suo viso. L'albero storpio nel cortile denuncia il cattivo terreno, ma chi passa gli dà di storpio, e con ragione. I verdi battelli e le gaie vele del Sund non li vedo. Fra tante cose vedo solo la rete dei pescatori, fragile. Perché vado dicendo solo che la contadina quarantenne cammina tutta curva? I seni delle ragazze son caldi come prima. Nel mio canto una rima 6 Nella traduzione di Luciana Frezza. 17 mi parrebbe quasi insolenza. In me combattono l'entusiasmo per il melo in fiore e l'orrore per i discorsi dell'Imbianchino. Ma solo il secondo mi spinge al tavolo del lavoro. Brecht rivendica, nel momento in cui non basta il consolatorio delle "gaie vele del Sund" dell'esilio danese né "l'entusiasmo per il melo in fiore", cosa dovrebbe cantare la parola poetica e in ogni caso cosa canta la sua personale ispirazione: "l'albero storpio", la "rete" "fragile" "dei pescatori", "la contadina" "curva" e naturalmente "l'orrore per i discorsi dell'Imbianchino" Hitler, di fronte alla gravità dei quali ormai anche la "rima" "parrebbe quasi insolenza" e riesce a sopravvivere solo l'impegno, che fonda così in direzione antilirica la necessità di una poesia realistica e pedagogica, della poesia della resistenza. Consideriamo ora William Carlos Williams, poeta statunitense, che nei Later Poems, raccolta degli anni Cinquanta, scrive (qui tradotto da Cristina Campo) Una specie di canto Attenda il serpe sotto la gramigna e la scrittura sia di parole, lente e rapide, affilate a colpire, quiete ad attendere, insonnia conciliare con metafore le persone e le pietre. Componi. (Niente idee se non nelle cose) Inventa! Sassifraga è il mio fiore, che spacca le rocce. "No ideas / but in things". Espressione e testimonianza di una poetica profondamente americana che si definisce attraverso immagini nette e linguaggio concreto, questa poesia ci dice in versi come deve essere la poesia: il "serpe sotto la gramigna" pronto a colpire e la "sassifraga" che "spacca le rocce" significano infatti la scelta di una scrittura poetica tenace le cui parole "insonni" si vogliono attraverso la metafora capaci di «riconciliare "le persone e le pietre" cioè la parola con la naturalità dell'esistenza» (Esposito, 2000, II, 256). 18 Voglio proporre ora una poesia (nella traduzione di Pietro Marchesani) della poetessa polacca Wisława Szymborska, tratta dalla raccolta Fine e inizio, del 1993 Ad alcuni piace la poesia Ad alcunicioè non a tutti. E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. Senza contare le scuole, dove è un obbligo, e i poeti stessi, ce ne saranno forse due su mille. Piacema piace anche la pasta in brodo, piacciono i complimenti e il colore azzurro, piace una vecchia sciarpa, piace averla vinta, piace accarezzare un cane. La poesiama cosa è mai la poesia? Più d'una risposta incerta è stata data in proposito. Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come alla salvezza di un corrimano. che si presenta come un interrogarsi metapoetico grazie al quale la poesia -"ma cosa è mai la poesia?"-viene nello stesso tempo con intenzione banalizzante minimizzata e integrata nelle più comuni attività quotidiane dell'esistenza, dall'affezionarsi a "una vecchia sciarpa" al mangiare volentieri "la pasta in brodo" al voler "averla vinta" nelle discussioni, così da non richiedere né giustificare teorizzazioni (ma questa metapoesia, se pur in chiave minimalista, non è forse una affermazione autoreferenziale?) e contemporaneamente viene dichiarata nientemeno che salvifica nella sua funzione, come il "corrimano" cui ci si aggrappa per non cadere. Con un altro spostamento andiamo ora in Italia all'inizio degli anni Settanta, e leggiamo il Montale di Satura La poesia I L'angosciante questione se sia a freddo o a caldo l'ispirazione non appartiene alla scienza termica. Il raptus non produce, il vuoto non conduce, non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto. Si tratterà piuttosto di parole 19 molto importune che hanno fretta di uscire dal forno o dal surgelante. Il fatto non è importante. Appena fuori si guardano d'intorno e hanno l'aria di dirsi: che sto a farci? La riflessione -che come sappiamo si fa spesso metaletteraria in questa raccolta all'interno della quale si potrebbe facilmente rintracciare un importante filone autoreferenziale -si appunta ora con ironia sulla ben poco in realtà "angosciante" questione dell'"ispirazione" poetica: da dove viene la poesia? "Dagli albori del secolo si discute / se la poesia sia dentro o fuori. / Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente / il fuori e dopo anni si addivenne ad un forfait / che non potrà durare perché il fuori / è armato fino ai denti", scriverà ancora Montale nel Quaderno dei quattro anni; ma se la questione dell'origine non è certo "importante" (infatti rima al mezzo con "surgelante" nell'abbassamento ironico di un lessico da cucina), ciò che conta è che la poesia esista e abbia senso e valore non per "le glosse degli scoliasti" né per il poeta "trovarobe che in lei è inciampato" ma nell'eteronomia della lettura che se ne fa, come chiarisce la seconda parte del componimento II Con orrore la poesia rifiuta le glosse degli scoliasti. Ma non è certo che la troppo muta basti a se stessa o al trovarobe che in lei è inciampato senza sapere di esserne l'autore. Leggiamo adesso questa poesia 7 della poetessa russa Anna Achmatova, scritta nel 1924 e raccolta nell'antologia Il giunco, aperta da un titolo fortemente condizionante, che in qualche modo cominciamo ad aspettarci e che subito introduce la tematica autoreferenziale La Musa Quando di notte attendo il suo arrivo, la vita sembra appesa a un filo. Che sono gli onori, la gioventù, la libertà 7 Nella traduzione di Paolo Galvagni. 20 davanti alla cara ospite col flauto in mano? Ecco è entrata. Gettato il velo, mi ha guardata attentamente. Le dico "Hai dettato tu a Dante le pagine dell'Inferno?". Risponde: "Io" Nella cifra tipica dell'intimismo di una dimensione di quotidianità, la poesia racconta in chiave metaletteraria il quando della sua nascita, il momento della sua formazione, personificata nel racconto dell'attesa notturna, silenziosa trepidante attesa che sembra appendere "la vita" "a un filo", dell'arrivo della "Musa", la "cara ospite col flauto in mano": naturalmente la poesia, la stessa che, nell'intento di costruire grazie al nobilitante riferimento intertestuale una sorta di trascendenza, ha dettato a Dante "le pagine dell'Inferno". Per chiudere questo iniziale brevissimo viaggio dimostrativo nell'autoreferenzialità poetica passiamo infine in Spagna e leggiamo una metapoesia (tradotta da Maria Grazia Profeti) dell'andaluso Juan Ramón Jiménez, tratta da Eternidades del 1918 Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose! ...La mia parola sia la cosa stessa, dall'anima creata nuovamente. Che per me tutti vadano quelli che non le conoscono, alle cose; che per me tutti vadano quelli che le dimenticano, alle cose; che per me tutti vadano tutti quelli che le amano, alle cose... Intelligenza,dammi il nome esatto, e tuo, e suo, e mio, delle cose. Un'invocazione in poesia alla poesia, "la mia parola" secondo la (del resto abituale) metonimia, che mossa dall'"Intelligenza" compone la scrittura poetica, affinché si faccia portatrice del "nome esatto delle cose", o meglio ancora "sia la cosa stessa", rifacendo l'esistente: scopriamo così -e questa mi sembra un'acquisizione interessante, sulla quale voglio tornare -che la motivazione più nascosta, il perché della poesia sta nel valore di un linguaggio inteso come assoluto, nel potere unico e fecondo della nominazione, nella capacità di creare dicendo o scrivendo: "la mia parola sia la cosa stessa". 21 La questione metapoetica La lettura di questi testi ci spinge a riconoscere la presenza di un qualcosa di evidentemente comune e condiviso nel manifesto reciproco implicarsi di una costante di forma -nella poesia, intesa come genere letterario, che dunque si definisce innanzitutto e costitutivamente in quanto linguaggio che indicativamente va a capo o più precisamente torna indietro, in cui le parole si dispongono nel verso: «di quale "forma" parliamo tuttavia? Sono molteplici le modalità secondo cui il linguaggio ha ricevuto, nei secoli, articolazione artistica, ma tutte sembrano riassumibili, e distinguibili, nell'opposizione di un principio lineare e continuo, regolato essenzialmente in senso logico e sintattico, a quello che segmenta invece quella linea interrompendone il corso ed accentuandone studiosamente i fattori di ricorrenza e gli elementi di parallelismo in genere. Alla prosa del primo caso (prorsus, che procede in linea retta) si oppone il verso del secondo (versus da vertere, tornare indietro), modernamente scandito su linee tipografiche ma costruito comunque in base a un principio che lo distingue e lo isola dagli altri versi» (Esposito, 2003, 16); e nello stesso tempo necessariamente di un tema costante -ma qui solleviamo un vespaio, visto che l'infelice nozione di tema non sembra destinata a trovar posto né pace nella critica letteraria. Rimandando 8 ad altro luogo più appropriato l'intera problematica assumiamo semplicemente il tema come una relazione, come spazio di tensione e figura di continua negoziazione, come "il risultato delle operazioni che compiamo, da autori e da lettori, per connettere insieme l'argomento e il senso, ciò di cui parliamo e ciò che diciamo (o ciò che attribuiamo a quanto abbiamo letto)" (Giglioli, 2001, 21); con necessaria semplificazione decidiamo di tralasciarne la difficile natura di inferenza interpretativa per riferirci solo, invece, alla sua più familiare dimensione semantica o di contenuto: per quanto in questo contesto ci interessa il fatto che, banalmente, i versi di una poesia scrivano e siano genericamente a proposito di 9 poesia. 8 Del tema, della critica tematica e della tematologia nel panorama teorico recente mi sono occupata nella mia tesi di laurea (Tema e interpretazione tematica nella critica letteraria, relatore professor Edoardo Esposito, correlatore professor Claudio Milanini), riportandone le poco confortanti impressioni cui ho fatto cenno; faccio dunque riferimento alla credo utile bibliografia che l'accompagna e che registra i nomi degli studiosi e gli studi dedicati a questo aspetto intuitivamente intrinseco eppure ancora poco popolare della teoria e della critica della letteratura. 9 È la nozione tematica di aboutness, che identificando il tema in una "relation of being about" (Geralde Prince, in Poétique, 64, 1985, 426) ne descrive la caratteristica dimensione di a proposito di. 22 Concediamoci allora un'ultima libertà associativa scegliendo di tornare indietro nei secoli, fino alla fine del Settecento, per leggere proprio in funzione della sua chiarezza d'esempio -ma anche, en passant, a ulteriore conferma della già notata trasversalità sia geografica che cronologica e della costanza intertestuale della poesia autoreferenziale: quasi che se c'è poesia ci sia anche metapoesia -questo componimento appassionatamente preromantico delle Rime di Vittorio Alfieri, che molto prima di ogni libertà compositiva o avanguardismo tecnico novecenteschi, nella struttura perfettamente chiusa del sonetto di endecasillabi variamente rimati tra quartine e terzine, in un certo senso la matrice metrica della letteratura italiana in versi, cantando l'arte della "Poesia" e celebrandone la divina funzione dispensatrice di "vita verace", unisce con felice evidenza la forma-poesia al contenuto tematico-poesia Bella, oltre l'arti tutte, arte è ben questa, Per cui sfogando l'uomo suoi proprj affetti, Gli altrui con dolce fremito ridesta, Mercé gli ardenti armoniosi detti. Sovr'auree penne in agil volo è presta Sempre a recar fruttiferi diletti Di contrada in contrada; e mai non resta; che ha i secol anche a soggiacerle astretti. O del forte sentir più forte figlia, che a' tuoi fervidi fabri sol dai pace Quel dì, ch'invida Morte atra li artiglia; Poesia, la cui fiamma il cor mi sface, Se al tuo divin furore il mio somiglia, deh dammi eterea tu vita verace! Le poesie che abbiamo letto, proprio come quest'ultima alfieriana, sono tutteconformemente al doppio ordine appena descritto -poesie sulla poesia: e questo è un fatto; una volta che ne risulti così confermata l'unità concettuale possiamo parlare in definitiva di una questione metapoetica relativa all'autoriferirsi della poesia a se stessa? Forse non per rivendicarne l'esistenza, che in realtà potrebbe sembrare facile informazione acquisita, piuttosto per sottolinearne l'importanza, non allo stesso modo riconosciuta secondo, per esempio, quanto Hans-Günter Funke, docente di italianistica presso l'università di Gottingen, scrive in un saggio apparso nel 2003 sulla Rivista di Letteratura Italiana a proposito dell'autoreferenzialità nel Canzoniere petrarchesco, del quale ha studiato diversi componimenti incentrati appunto sul tema del poetare stesso ("Nulla al mondo è che non possano i versi", canta Petrarca nell'endecasillabo di una sestina), dal momento che: "a partire dagli anni Settanta, i fenomeni legati 23 all'autotematizzazione della letteratura vengono concettualizzati da quella branca della ricerca che si occupa di metafinzione con il ricorso a termini quali appunto metafinzionalità e autoreferenzialità. Nelle suddette ricerche, però, con una naturalezza che sorprende, viene preso in considerazione quasi esclusivamente il genere narrativo, in particolare il romanzo, e questo nonostante occasionalmente si sottolinei -a ragioneche le tecniche di metafinzione sono rintracciabili anche in opere di genere lirico" (Funke, in Rivista di letteratura italiana, 2003, XXI, 3, 11). Proprio da questo spunto mi sembra ora utile ripartire per studiare la metapoesia, singolare creatura letteraria oggetto del mio interesse e della quale ho provato a indicare le coordinate fondamentali; la poesia della poesia, quasi una sorta di mise en abîme se nella poesia c'è la poesia, la poesia che compare e viene scritta dai poeti non come ragionata dichiarazione d'intenti in prosa, ma direttamente nei versi delle proprie poesie, ponendosi evidentemente in un progetto in certo modo necessario di esplicitazione o di giustificazione teorica, di riflessione e di autocoscienza critica, se non di costruzione linguistica di un'esistenza poetica; in questi versi 10 di Federico García Lorca ... Poesia è la vita che percorriamo con ansia aspettando chi governi senza meta la nostra barca. ... 10 Federico García Lorca: Su un libro di versi, da Poesie inedite 1917-1925, a cura di Piero Menarini, Garzanti, Milano, 1988. 24 1.4 Come procedere... Esiste, dal punto di vista della quantità come della qualità dei versi riconducibili sotto questa definizione, una questione che chiamiamo metapoetica. Non solo esiste, ma se ci è sembrato di poter dire l'autocoscienza critica del fare poesia in qualche misura coestensiva alla scrittura stessa della poesia, questa autocoscienza poetica si prospetta con ogni evidenza come di vastissima portata trasversale e di dimensioni comparate sovranazionali, in continuo movimento, di associazione in associazione, per contatto o per opposizione, lungo i secoli della letteratura e tra le letterature. Il rischio è facilmente quello di perdersi: di fronte alla pervasività, alla continuità e alla ricorsività di questo materiale scopriamo di aver bisogno di un principio di metodo, di una più o meno rigida chiave interpretativa, di una impostazione regolata per avanzare nella lettura tematica dell'autoreferenzialità. Dopo la libertà che doveva essere esemplificativa delle prime metapoesie considerate, volendo ora proseguire nel nostro discorso "occorre invece simulare a priori un ordine. L'ordine che sciorina uno dopo l'altro -avendoli retrospettivamente ripensati -i postulati che soggiacciono all'oggetto della ricerca; e le facoltà o le restrizioni che ne dirigono il progetto. C'è un rischio di inattualità, da giustificare prima di correrlo fino in fondo, nell'affrontare oggetto e progetto con un atteggiamento sistematico?" (Orlando, 1993, 59). Se -senza poterci fare carico qui delle eventuali attualità o inattualità del pensiero sistematico -decidiamo operativamente per la necessità di una sistematizzazione categorica, di fatto unica rete di sicurezza di fronte a una tematica che si rivela tanto interessante quanto veloce nell'allontanarsi da una poesia all'altra, lo facciamo però sottoscrivendo, quasi a titolo di garanzia, anche la bella epigrafe di Fontenelle che Francesco Orlando pone proprio in apertura del suo grandioso studio sugli oggetti vecchi defunzionalizzati e kitsch nelle immagini della letteratura: "Plusieurs vérités séparées, dès qu'elles sont en assez grand nombre, offrent si vivement à l'esprit leur rapports et leur mutuelle dépendance, qui il semble qu'après avoir été detachées par une espèce de violence les unes d'avec les autres, elles cherchent naturellement à se réunir" (in Orlando, 1994, 1). Facendo riferimento alle prime poesie presentate proviamo dunque a individuare e a fissare alcune categorie interpretative che sostengano e contengano l'abbondanza della scrittura metapoetica, offrendo un appoggio, uno schema alla lettura, per stabilire quindi metodologicamente una qualche griglia che possa inquadrare i materiali tematici 25 prelevati. E lo facciamo andando a cercarci un modello forte e tradizionale di sistematizzazione, andando cioè a vedere cosa stabiliscono la retorica classica e la precettistica antica per una corretta esposizione dei fatti, che "nel genere giudiziario era la parte riservata a esporre i termini della questione sulla quale il giudice doveva pronunciarsi. Donde le classiche definizioni della narratio come racconto, persuasivo, di un'azione come è stata o come si suppone che sia stata fatta; discorso che informa l'ascoltatore sul tema della controversia", come chiarisce nel suo Manuale di Retorica Bice Mortara Garavelli (2005, 66); che continua: "la trattatistica medievale ricavò dal De Inventione ciceroniano un elenco di elementi e fattori della narrazione detti 'circostanze' (di cui era considerato inventore il greco Ermagora), codificate nelle due serie degli attributi (ricavati dai loci 11 ) e delle domande relative a questi; una specie di memorandum per verificare la presenza delle condizioni necessarie alla compiutezza dell'esposizione: persona factum causa locus tempus modus facultas ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ ↓ quis? (chi) quid? (che cosa) cur? (perché) ubi? (dove) quando? (quando) quaemadmodum? (in che modo) Quibus adminiculis? (con quali mezzi o aiuti) Se si pone mente alle attuali precettistiche del comporre e alle analisi di testi a fini didattici si noteranno, se non persistenze, almeno somiglianze fra la pratica antica e la moderna. Si ricordi, in particolare, 'la regola delle cinque w', proposta per la cronaca 11 Sempre Mortara Garavelli (2005, 83) a proposito degli argomenti retorici tratti dalle cose: "La classe degli argumenta a re, è complessa e, ovviamente, aperta. Delle dieci suddivisioni principali le prime cinque corrispondono ad altrettante domande, come indica il seguente schema", da confrontare, ovviamente, con le circostanze retoriche che stiamo considerando: luoghi domande a causa quare ? (perché?) a loco ubi ? (dove?) a tempore quando? (quando?) a modo quomodo? (come?) a facultate per quae? (mediante, in forza di che?) 26 giornalistica e compendiata, in inglese, dagli interrogativi who, what, when, where, why, che corrisponde ai primi cinque latini" (ibidem, 69). Proviamo dunque ad applicare queste circostanze retoriche al nostro discorso. Tralasciando per evidente non pertinenza alla questione dell'autoreferenzialità poetica la facultas, e ampliando e raddoppiando invece per naturale esigenza, come vedremo, la centralità del factum (che cosa canta il poeta, ma, anche, ovviamente, cos'è la poesia), riutilizziamo l'idea di identificare alcune specifiche domande attraverso le quali leggere l'enorme e affascinante quantità di testi, e impostiamo sulla loro formulazione la nostra esigenza di categorizzazione. Abbiamo infatti già evidenziato come i componimenti poetici letti siano autoreferenziali, ma osservando meglio ci accorgiamo che sono inoltre risolvibili nell'esplicitazione di interrogativi riguardanti l'argomento poesia. Dalla prima lettura dei testi possiamo dunque dedurre ancora qualcosa di importante; tutte le poesie sono infatti rappresentabili come domande sulla poesia, o meglio, si possono leggere come risposte a domande relative alla poesia: io sostengo 12 , infatti, e colgo qui l'occasione per ribadirlo, che la lettura tematica, ogni lettura tematica e quindi anche questa lettura metapoetica che stiamo percorrendo, sia definibile in quanto leggere come, sulla scorta della analoga nozione del "vedere come" che incontriamo nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, secondo la quale vediamo una cosa conformemente alla sua, magari anche inconsapevole, interpretazione, se infatti "un triangolo può essere visto: come un buco triangolare, come un corpo, come un disegno geometrico; appoggiato sulla base, appeso per un vertice, come un monte, come un cuneo, come una freccia o come un indice; come un corpo capovolto che (per esempio) dovrebbe poggiare di solito sul cateto minore, come un mezzo parallelogrammo, o come diverse e svariate altre cose. Puoi pensare ora questo ora quello; puoi considerarlo una volta come questa cosa un'altra come quest'altra, e allora lo vedrai ora in questo modo ora in quest'altro. In che modo allora? Non esiste nessuna ulteriore determinazione. Ma come è possibile che si veda una cosa conformemente a una interpretazione?" (Wittgenstein, 1999, 264). Parallelamente il leggere come tematico è qualcosa in più e che va oltre il semplice leggere, leggere e basta: è infatti leggere attualizzando un punto di vista, un leggere che è quindi inevitabilmente interpretare, e in questo specialmente sta la sua importanza. Riprendiamo allora brevemente, dopo questa a mio parere doverosa digressione di ordine teorico, la lettura tematica metapoetica attraverso questa 12 Nella mia tesi di laurea, cui ho già fatto cenno. 27 imposizione interpretativa interrogativa e proviamo a rileggere i versi appena considerati secondo il nostro, parziale e particolare ma preliminarmente dichiarato, punto di vista: ovvero genericamente come risposte a una domanda a proposito di poesia. Così Baudelaire ci dice chi è il poeta Il Poeta assomiglia al principe dei nembi Che pratica la tempesta e se la ride dell'arciere; esiliato a terra in mezzo agli scherni, le ali da gigante gli impediscono di camminare. Brecht cosa canta il poeta In me combattono l'entusiasmo per il melo in fiore e l'orrore per i discorsi dell'Imbianchino. Ma solo il secondo mi spinge al tavolo del lavoro. Williams come canta il poeta e la scrittura sia di parole, lente e rapide, affilate a colpire, quiete ad attendere, insonnia conciliare con metafore le persone e le pietre. La Szymborska chiede e si chiede esplicitamente che cosa è la poesia La poesiama cosa è mai la poesia? Più d'una risposta incerta è stata data in proposito. Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come alla salvezza di un corrimano. Montale prova a rispondere alla questione da dove venga la poesia L'angosciante questione se sia a freddo o a caldo l'ispirazione non appartiene alla scienza termica. 28 Il raptus non produce, il vuoto non conduce, non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto. L'Achmatova si sofferma invece a descrivere il quando della poesia Quando di notte attendo il suo arrivo, La vita sembra appesa a un filo. Che sono gli onori, la gioventù, la libertà davanti alla cara ospite col flauto in mano? Mentre Jiménez risponde alla fondamentale interrogazione metapoetica relativa al perché della poesia (o della metapoesia?) ...La mia parola sia la cosa stessa, dall'anima creata nuovamente. Se vogliamo riconsiderare in quest'ottica anche il sonetto di Alfieri, per testare subito l'applicabilità dell'impostazione interpretativa sotto forma di domande che si sta proponendo, possiamo notare come siano compresenti nei versi l'argomentazione relativa a che cosa è la poesia nella prima quartina Bella, oltre l'arti tutte, arte è ben questa, Per cui sfogando l'uomo suoi proprj affetti, Gli altrui con dolce fremito ridesta, Mercé gli ardenti armoniosi detti. e nello stesso tempo l'esplicitazione del perché della poesia nella terzina finale Poesia, la cui fiamma il cor mi sface, Se al tuo divin furore il mio somiglia, deh dammi eterea tu vita verace! Questa istanza che abbiamo definito ordinatrice trova dunque una credibile espressione nella formulazione di alcune particolari domande relative alla poesia; si tratta di categorie (ma categorie letterarie, è importante sottolinearlo, naturalmente malleabili e osmotiche, che possono essere eventualmente accompagnate dalla loro categoria contraria e che sono sempre suscettibili di una compresenza, come del resto abbiamo appena visto, o di una contaminazione all'interno della scrittura) sotto forma di 29 interrogativi che riassumono le molteplici riflessioni metapoetiche in versi. Procediamo dunque scegliendo di leggere e provando a interpretare la metapoesia attraverso queste domande categoriche: chi è il poeta? "Fu questo un poeta -colui che distilla / Un senso sorprendente da ordinari / significati, essenze così immense / da specie familiari" (Emily Dickinson); il poeta, in quanto poeta, cosa canta? "Di conservarle sforzati, poeta, / anche se poche sono che s'arrestano, / le tue visioni erotiche. / Semicelate inducile nei versi. / Di possederle sforzati, poeta" (Constantinos Kavafis). E ancora come si scrive la poesia? "Scrivete quello che volete / Nello stile che vi sembri meglio / E' passato troppo sangue sotto i ponti / Per continuare a credere -io credo -/ Che si può seguire una sola strada: / In poesia è permesso tutto" (Nicanor Parra). Che cosa è la poesia? "La poesia è le ombre sul muro della caverna di Platone in-/ traviste per un attimo. / La poesia è graffiti eterni nel cuore di ciascuno" (Lawrence Ferlinghetti). Dove è, e da dove viene, la poesia? "O poesia poesia poesia / Sorgi, sorgi, sorgi / Su dalla febbre elettrica del selciato notturno. / Sfrenati dalle elastiche silhouettes equivoche / Guizza nello scatto e nell'urlo improvviso" (Dino Campana). Quando, la poesia? "Una parola, una frase: da cifrati / segni scoperta vita emerge, fulmineo senso: / ristà il sole, tacciono / le sfere, tutto in quella si raddensa" (Gottfried Benn). Ancora, e soprattutto, perché la poesia? "Canta, poeta, canta! / Violenta il silenzio conformato. / Acceca con un'altra luce la luce del giorno / Inquieta il mondo quieto / Insegna ad ogni anima la sua ribellione" (Miguel Torga) 13 . 13 Presento questi versi, dei quali molto verranno ripresi e approfonditi più avanti, nella formula veloce dell'elenco a scopo di chiarezza esemplificativa. Per i rimandi: Dickinson, 448: per il traduttore si veda la scheda nel Meridiano Mondadori, 1997, 1835-55; Kavafis: Quando si destano, traduzione di Filippo Maria Pontani; Nicanor Parra: Lettere del poeta che dorme su una sedia, traduzione di Hugo García Robles e Umberto Bonetti; Lawrence Ferlinghetti, Americus III, traduzione di Massimo Bacigalupo; Dino Campana O poesia poesia poesia; Gottfried Benn: Una parola, traduzione di Sergio Solmi; Miguel Torga: Voce attiva, traduzione di Daniela Di Pasquale. 30 1.5 ...e dove procedere Stabilito come procedere, ci rimane invece da definire dove procedere, quale area letteraria eleggere cioè a banco di prova. Si pone infatti ora l'esigenza cui già facevo riferimento di delimitare e circoscrivere con precisione l'ambito della ricerca, per porre intenzionalmente dei paletti -che naturalmente potrebbe essere anche interessante spostare, allargando o restringendo il campo dell'indagine -ma che devono rappresentare la volontà, di fronte a un argomento che potenzialmente si presta a una espansione illimitata nello spazio e nel tempo, di stabilire solidi confini all'interno dei quali (se non altro almeno per il momento) restare. Il primo è un confine geografico di spazio, per ovvie ragioni, relative soprattutto all'indagine del significante poetico, un limite linguistico: la poesia quindi specificatamente in lingua italiana, mentre il testo poetico straniero potrà essere ancora utilmente usato per avviare, sostenere, meglio esemplificare o magari anche contraddire il discorso, e potremo, in questo senso, accontentarci di lavorare su traduzioni. Un secondo confine necessario è poi un confine di tempo, che in questo caso impone alla poesia il limite cronologico del Novecento. In un primo momento avevo pensato di concentrare l'attenzione sulla poesia italiana diciamo contemporanea, ovvero dal secondo dopoguerra in avanti. Tuttavia proseguendo nella riflessione, nella lettura e nel ritrovamento dei materiali il fatto di assumere la data del 1945 come vincolante mi è sembrato forzato -come considerare, non so, per esempio, la metapoesia del Quasimodo impegnato del dopoguerra ("I poeti non dimenticano") e non il misticismo della parola del periodo ermetico ("Tu ridi che per sillabe mi scarno") o addirittura il "poeta di straccioni" dei manoscritti giovanili; come tralasciare l'impatto determinante sulle successive scrittura poetica e metapoetica ("Il corpo dissanguato / mi dissangua / la poesia") del Porto Sepolto di Ungaretti, che è del 1916? -e in ogni caso riduttivo rispetto alla stretta interazione degli autori e delle poetiche che si richiamano all'interno di un secolo complesso e multiforme come è il Novecento per la poesia italiana: del resto, "se si guarda alle linee di sviluppo della poesia europea in una prospettiva di lungo periodo, si può facilmente constatare come nell'età moderna l'arco vitale di un canone lirico abbia una durata all'incirca secolare, ove per canone si intenda ovviamente l'intero processo che va dalla gestazione alla piena affermazione alla crisi di un modo egemone di scrivere in versi: un modo che attiene in egual misura alla 31 nozione di poesia e al suo destino funzionale, alle scelte tematiche e al loro trattamento sulla pagina, fino ai codici linguistici, stilistici e metrici della compagine espressiva; e che nel suo stesso porsi come maggioritario e vincente funge automaticamente, nel tessuto storico in cui è inserito, da punto di riferimento per ogni manifestazione eccentrica, per ogni linea di fuga che non potrà definirsi, anche e soprattutto soggettivamente, se non in negativo, se non in quanto anti rispetto ad esso" ( Cucchi e Giovanardi, 1996, I, dall'Introduzione). Tuttavia a questo ampliarsi che ho ritenuto necessario dell'area d'indagine non corrisponde ovviamente nessuna pretesa di esaustività né ancor meno una volontà di completezza, per cui all'interno del panorama novecentesco mi interessa seguire non tanto una successione di tipo storico, che è comunque naturalmente sottintesa, quanto piuttosto, con un andamento associativo, osservare attraverso il filtro della questione autoreferenziale, formulata per mezzo degli interrogativi sulla poesia eletti a categoria, il crearsi e il porsi in evidenza di alcune direzioni significative lungo la scrittura in versi, di alcuni percorsi metapoetici tra poesie e tra poeti. Restiamo dunque all'interno del Novecento, e per fissarne gli estremi, cominciamo proprio dai primi anni. "Il tempo delle passioni romantiche, -scrive Esposito -all'inizio del secolo e soprattutto in Italia, è definitivamente tramontato, nonostante il travestimento che D'Annunzio ne attua in chiave di estetismo, e con esso quello dell'orgogliosa esaltazione dell'io del poeta. Nella luce crepuscolare che pare la più adatta alla nuova sensibilità, le dichiarazioni piegheranno verso la grigia tonalità del non essere, e disegneranno un mondo di piccole cose e di irredimibile tristezza, segnato dalla prospettiva inesorabile della morte" (Esposito, 2000, I, 2). Scritto nei versi possiamo leggere quanto e come stia cambiando il modo di pensarsi del poeta e il modo di pensare e di fare la poesia, nel riflettere su se stessa di questa poesia in cerca di una nuova definizione; così, per esempio, Corazzini è solo "un piccolo fanciullo che piange", Gozzano è "un coso con due gambe detto guidogozzano", Moretti fa poesie col lapis ("e adesso se ho un foglio e una matita / faccio, indovina un po', faccio dei versi"), Palazzeschi è un saltimbanco ("Chi sono? / Il saltimbanco dell'anima mia"), il pagliaccio tanto caro alla figuratività di questi anni: è evidentemente in corso un processo di demolizione della figura del poeta e delle istituzioni poetiche tradizionali, che avrà il suo principale rappresentante naturalmente in Montale e nella sua poesia della negatività ("dicono che la mia / sia una poesia d'inappartenenza"). È, si potrebbe dire, la poetica del non, rivendicazione di una poesia che nasce come non poesia scritta 32 da non poeti e che vuole, negandosi, affermare se stessa e la novità di cui si fa portatrice. Dunque, per far parlar subito i versi, leggiamo la Desolazione del povero poeta sentimentale, che Sergio Corazzini scrive nel 1906, termine post quem fissato alla riflessione, prima lunga poesia in lingua italiana in ordine di tempo tra il materiale autoreferenziale che ho raccolto e che qui mi interessa considerare, e della quale riporto, per brevità, solo alcune parti I Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? III Io voglio morire, solamente, perché sono stanco, solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d'amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. IV Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l'aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente Ma io non sarei poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme. VII Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. VIII Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene vivere ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen. 33 In questa poesia sulla poesia come antipoesia, una metapoesia che non vuole dirsi poesia e che non vuole apparire poesia quando intenzionalmente prende la forma di una preghiera nell' "amen" conclusivo, alla domanda vincolo di lettura -chi è il poeta -Corazzini risponde esplicitamente "Io non sono un poeta": compare dunque la dichiarazione apofatica, l'affermazione attraverso la negazione, la poetica del non poeta. "Ma è proprio col negarsi la qualifica di poeta che Corazzini mette in crisi il ruolo del poeta-vate inteso tanto nel senso di cantore civile di valori tradizionali (Carducci), quanto in quello di privilegiato frequentatore di zone riservate della personalità e della parola (D'annunzio). Con Corazzini scrivere poesie non significa più fare un mestiere prestigioso, ma rendere una testimonianza" (Gioanola, 1986, 53). "Io so che per esser detto: poeta, conviene / vivere ben altra vita!" scrive ancora Corazzini rafforzando nella ripetizione del complemento dell'oggetto interno il nucleo tematico (letteralmente) vitale del suo pensiero, se alla dannunziana vita inimitabile si sostituisce ora per immediata opposizione il morire: nell'impossibilità di essere poeta e nell'impossibilità di vivere perfino "la vita semplice delle cose" rimane solo la realtà poetica e peraltro anche autobiografica della malattia e della morte "Oh, io sono veramente malato! / E muoio un poco ogni giorno". L'apparentemente ingenua equazione fanciullo-malato-poeta che testualmente si vuole negare, nel passaggio dalla malattia come fatto privato a una malattia generazionale come condizione di rottura e di cui la poesia si fa testimonianza esistenziale, nell'implicito ma inevitabile identificarsi del poeta con il malato, segna uno scarto, propone una svolta destinata a condizionare profondamente la lirica successiva, e trova il suo corrispettivo stilistico nella scelta allora coraggiosa del verso libero. Da Corazzini saltiamo adesso a piè pari alla fine del Novecento, al 1999 come rappresentativo anno limite ante quem che chiude in effetti il secolo e il millennio, con l'ultimo testo considerato, dal titolo, guarda caso, La poesia, di Valerio Magrelli La poesia Le poesie vanno sempre rilette, lette, rilette, lette, messe in carica; ogni lettura compie la ricarica, sono apparecchi per caricare senso; e il senso vi si accumula, ronzio di particelle in attesa, sospiri trattenuti, ticchettii, da dentro il cavallo di Troia. 34 Testo che mi interessa in particolar modo non solo per la definizione della poesia come caricatore di significato, quando afferma che "Le poesie...sono apparecchi per caricare senso", in una originale e convincente concezione pragmatica 14 della poesia, nella quale la lettura "che compie la ricarica" "accumula" "il senso" fino a garantirle la sorprendente forza di un dispositivo di guerra, per antonomasia il "cavallo di Troia", come se appunto la poesia fosse nientemeno che un'arma, e l'arma per eccellenza; ma soprattutto perché nel modo di fare poesia di Magrelli significativamente, scrive Giorgio Manacorda nella sua antologia La poesia italiana oggi "non per caso il discorso metaletterario è continuo. La poesia si pone come poesia sulla poesia" (Manacorda, 2004, 304). E ne abbiamo ulteriore conferma se, per esempio, leggiamo dello stesso autore questa seconda poesia, in realtà precedente, perché del 1980, altra data fortemente simbolica dal momento che con Il nome della rosa di Umberto Eco proprio con quest'anno si fa cominciare anche in Italia nella sua complessità il Postmoderno Dieci poesie scritte in un mese non è molto anche se questa sarebbe l'undicesima. Neanche i temi poi sono diversi anzi c'è un solo tema ed ha per tema il tema, come adesso. Questo per dire quanto resta di qua della pagina e bussa e non può entrare, e non deve. La scrittura non è specchio, piuttosto il vetro zigrinato delle docce dove il corpo si sgretola e solo la sua ombra traspare incerta ma reale. E non si riconosce chi si lava ma soltanto il suo gesto. Perciò che importa vedere dietro la filigrana, se io sono il falsario e solo la filigrana è il mio lavoro. È una delle prime poesie della raccolta Ora serrata retinae, ed è una esplicita dichiarazione di poetica. Il poeta "falsario" (chi è il poeta?) riferendosi alla propria, non 14 A proposito di una recente riconsiderazione della dimensione pragmatica -ossia la varia e complessa attività metalinguistica di quei soggetti empirici che sono gli scrittori e i lettori -della teoria letteraria e in vista di una nuova filosofia della letteratura, si vedano le opere di Franco Brioschi; un esempio su tutti: Critica della ragion poetica, 2002, Bollati Boringhieri, Torino. 35 troppo prolifica evidentemente, attività compositiva risponde infatti felicemente alla domanda categorica che cosa è la poesia, nel tentativo, attraverso l'immagine del "vetro zigrinato" che lascia intravedere solo "l'ombra" di "quanto resta di qua della pagina e bussa e non può entrare", di negarle una totalità esistenziale di invece solidissima tradizione letteraria (Antonia Pozzi lo definiva l'enigma di Tonio Kröger, concludendo che "non si può cogliere una fogliolina sola dell'alloro dell'arte sans la payer de sa vie"; Pozzi, 2001, 7). In questa compresenza di riflessioni metapoetiche Magrelli ci vuole dire anche cosa canta la sua poesia tardo-novecentesca se "neanche i temi poi sono diversi / anzi c'è un solo tema / ed ha per tema il tema, come adesso": evidentemente il tema è sempre lo stesso, e il tema è la poesia, quasi in una riscrittura fine secolo di quanto già Baudelaire, con il quale abbiamo aperto ogni riflessione metapoetica, sosteneva a proposito della poesia che "basta a se stessa", la poesia "che non ha per oggetto la Verità, ma solo Se Stessa" (in Hamburger, 1987, 9). Il Novecento, dunque, proprio perché lungo la durata di questo secolo si verificano, come sappiamo, trasformazioni sostanziali per la poesia. La crisi che investe le istituzioni poetiche ottocentesche, due guerre una dopo l'altra e intanto il fascismo e la Resistenza, la ricostruzione del dopoguerra, gli anni del boom, la società dei consumi e l'eccesso degli anni Ottanta fino alla stanchezza dei Novanta -per riassumere se e come si può un secolo a grandi linee -cambiano infatti il modo di intendere e di scrivere la poesia, cambiano il ruolo dell'artista e contemporaneamente la sua autorappresentazione, mentre compare un'esigenza di autogiustificazione e si manifesta nei versi stessi che i poeti scrivono la necessità di riflettere sul proprio fare poesia: sembra dunque legittimo supporre una centralità specificatamente novecentesca della metapoesia accanto alla poesia e ipotizzare un concentrarsi e intensificarsi del discorso poetico autoriferito proprio nel corso di questi particolari anni della letteratura italiana. 36 Capitolo II Per una categorizzazione 37 2.1 Chi è il poeta? Il poeta è un fingitore. Finge così totalmente da fingere che è dolore il dolore che davvero sente. Fernando Pessoa Riprendiamo allora le domande-categoria che abbiamo impostato e proviamo a verificarne l'ipotizzata capacità aggregante e l'eventuale validità ermeneutica. E ripartiamo da questi due versi, già anticipati poco sopra: "Chi sono? / Il saltimbanco dell'anima mia", che Aldo Palazzeschi scrive nel 1909 (nei Poemi) in chiusura della poesia aperta prevedibilmente dallo stesso titolo anticipatore Chi sono? Son forse un poeta? No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell'anima mia: "follìa". Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore la tavolozza dell'anima mia: "malinconìa". Un musico, allora? Nemmeno. Non c'è che una nota nella tastiera dell'anima mia: "nostalgìa". Son dunque...che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell'anima mia. Fin dal paratesto, dunque, risulta esplicita la questione del poeta e della sua identità, nel passaggio dall'interrogarsi su chi è il poeta ("un fingitore", per esempio, per Pessoa 15 ) all'interrogarsi su chi sono io: "Son forse un poeta?", e ritroviamo anche il già notato procedere per via negativa tipico di questo inizio di secolo nel cadenzato trisillabo "no, 15 Nella metapoesia Autopsicografia, per la traduzione di Giulia Lanciani. 38 certo"; ma la risposta non è più la diminutio crepuscolare 16 , osservata invece, per esempio, nel patetismo di tono infantile di Corazzini, quanto piuttosto uno scanzonato vitalismo: non certo un poeta, ormai difficilmente definibile, piuttosto il non-poeta che attraverso un ribaltamento tematico in chiave clownesca si identifica con il giullare, il buffone che fa spettacolo invece della poesia di cui non è più capace e per la quale non c'è più posto, il saltimbanco che offre allegramente la sua anima agli sguardi altrui. Facile richiamare per inevitabile associazione comparativa, se pur solo con un necessariamente brevissimo accenno, questi malinconici versi che riporto nella traduzione di Anna Maria Carpi di Solo giullare!, Solo poeta!, uno dei Ditirambi di Dioniso, composti tra il 1885 e il 1888 da Nietzsche 17 scrittore di poesia ... Tu il pretendente della verità? Tu? -così ti schernivano -No! Soltanto poeta! un animale, astuto, rapace, strisciante, che deve mentire, mentire sapendo, volendo: tutto teso alla preda, in maschere di tutti i colori, maschera a se stesso, preda a se stessoquesto -il pretendente della verità? No! Solo giullare! Solo poeta! che parla in tutti i colori, colori erutta da giullaresche maschere, rampicando su ponti di mendaci parole, su variopinti arcobaleni tra finti cieli e finte terre, vagando, strisciandosolo giullare! Solo poeta! Con ben altra amarezza il poeta è "soltanto" un giullare senza nessuna pretesa di "verità", e ritroviamo già formulata la nuova marginalità propriamente novecentesca del poeta: "il clown è il poeta in azione" 18 . Un'impostazione ugualmente negativa nella variante, ancor più radicale se non fosse per la caratteristica cifra di malinconica svagatezza, io sono sì poeta ma "non voglio più 16 Se la poesia di Palazzeschi, come scrive Esposito nella citata antologia, "appare ai suoi esordi vicina al crepuscolarismo sia per alcuni temi sia per quanto riguarda la polemica nei confronti della poesia sublime del poeta-vate D'annunzio, ma è soprattutto caratterizzata dalla presenza dell'ironia e da una fanciullesca volontà di provocare e stupire, cosa che le fa anticipare alcuni tratti del futurismo" (Esposito, 2000, I, 92). 17 Cui toccherà tuttavia suo malgrado di trovarsi banalmente in rima con le famose "camicie" di Gozzano, coinvolto nello stesso processo autoreferenziale di demitizzazione dell'istituzione letteraria di cui dicevamo. 18 H. Miller, Nota a mo' di epilogo nel Sorriso ai piedi della scala (in Starobinsky, 1998, 128). 39 essere io", ovvero "quello che fingo d'essere e non son!", compare proprio in Guido Gozzano che ponendosi negli stessi anni la stessa domanda risponde 19 con analoga ironica spersonalizzazione "Chi sono? È tanto strano / fra tante cose strambe / un coso con due gambe / detto guidogozzano"; fino ad affermare esplicitamente, in questa sestina tratta da La Signorina Felicita del 1911, di voler rinnegare "la fede letteraria che fa la vita simile alla morte", associando in questo modo la dimensione della vergogna alla qualifica poetica, sterilmente inconciliabile, a quanto pare, con la capacità di invece "vivere di vita" Oh! Questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta, meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì mi vergogno di essere un poeta! Crisi dell'istituzione poetica, perdita del ruolo e non accettazione del poeta in quanto tale nel rinnovato contesto sociale aprono in Italia il nuovo secolo, ma prima di seguire questa direzione di disfunzionalità e solitaria, più o meno orgogliosamente rivendicata, diversità del poeta, che mi pare costituisca una delle più frequenti modalità di risposta 19 Domanda contemporaneamente riformulata da Marino Moretti: "ma quando ascolto il suono / tristissimo al cuore mio / solo e tremante anche io / dico e ridico: chi sono?". Un'altra risposta ci è offerta successivamente, per esempio, da Valentino Zeichen, che nel 1974 in Area di rigore include la poesia Il poeta Presumibilmente, sembro un poeta di elevata rappresentanza sebbene la mia insufficienza cardiaca ha per virtù medica il libro del «cuore» Abito appena sopra il livello del mare mentre la salute, la purezza, la ricchezza e gli sports invernali stazionano oltre i mille metri Perciò mi ossigeno respirando l'aria dei paradisi alpini così arditamente fotografati dagli scalatori sociali nonostante la pericolosità dei dislivelli nella cui dimensione autoreferenziale tuttavia notiamo subito una scelta di leggerezza e straniamento banalizzante, nella voluta immediata presa di distanza ironica e nel ricercato distacco garantiti linguisticamente dall'attacco poco convinto "presumibilmente, sembro"; secondo il giudizio, per la verità non troppo lusinghiero, di Giorgio Manacorda, infatti: "nel caso di Zeichen è rimasta solo la sagoma vuota del dandy, è rimasto l'ingombro del personaggio. La poesia in lui si è esteriorizzata, è diventata l'immagine del personaggio-poeta. Egli ha assorbito la poesia nella vita, ed è diventato l'icona del poeta come se lo immagina un liceale o un presentatore televisivo" (Manacorda, 2004, 510). 40 all'interrogativo autoreferenziale chi è il poeta, vorrei invece opporre per l'evidente contrasto il Majakovskij della poesia autoreferenziale La blusa del bellimbusto 20 , peraltro quasi coeva, siamo infatti nel 1914 Io mi cucirò neri calzoni del velluto della mia voce. E una gialla blusa di tre tese di tramonto. Per il Nevskij del mondo, per le sue strisce levigate andrò girellando col passo di Don Giovanni e di bellimbusto. Gridi pure la terra rammollita nella quiete: "Tu vieni a violentare le verdi primavere!" Sfiderò il sole con un sogghigno arrogante: "Sul liscio asfalto mi piace biascicare le parole!" Sarà forse perché il cielo è azzurro e la terra mia amante in questa nettezza festiva, che io vi dono dei versi allegri come ninnoli, aguzzi e necessari come stuzzicadenti. Donne che amate la mia carne e tu, ragazza che mi guardi come un fratello, coprite me, poeta, di sorrisi li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto. La cui quarta strofa esprime la baldanzosa consonanza futurista del poeta -e dell'essere poeta Majakovskij dice con significativo compiacimento "come coda di pavone la fantasia spiegherò in un ciclo screziato / darò l'anima in potere d'uno sciame di rime inaspettate" 21 -la sua spavalda adeguatezza di "bellimbusto", manifestando una giovanile ottimistica fiducia nella allegra necessità del verso che può tutto ("conosco la forza delle parole", scrive nei Frammenti) e tracciando così uno sviluppo metapoetico di segno questa volta positivo, alternativo ma complementare; che ci spinge ancora indietro nel tempo per considerare un testo che ne potrebbe rappresentare, in una ideale compresenza storica e geografica di ogni scrittura in versi, in qualche misura la matrice virtuale, il modello tematico di riferimento, esempio credo efficace di una orgogliosa metapoesia finalmente dell'appartenenza: nessuna faticosa domanda o tormentata ricerca d'identità, ma invece una esclamativa celebrazione della poesia e del suo divino artefice, l'esaltata ed esplicita affermazione "io sono il poeta" di "Walt Whitman, un 20 Traduzione di Angelo Maria Ripellino. 21 In Sberleffi, traduzione di Giovanni Crino e Mario Socrate; per Frammenti traduzione di Ignazio Ambrogio. 41 cosmo, di Manhattan il figlio, / turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e / procrea" (da Il canto di me stesso, XXI, nella traduzione di Giuseppe Conte) Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell'Anima, i piaceri del cielo sono con me e le sofferenze dell'inferno sono con me, i primi li innesto e li faccio crescere su me stesso, questi ultimi li traduco in una nuova lingua. Sono il poeta della donna come dell'uomo, e dico che è grande essere donna come essere uomo, e dico che non c'è niente di più grande che la madre degli uomini. Io canto la canzone dell'espansione e dell'orgoglio, abbiamo avuto abbastanza inchini e deprecazioni, io mostro che la grandezza è soltanto sviluppo. Hai superato tutti gli altri? sei il Presidente? È una sciocchezza, si arriverà anche più in là, si andrà oltre. Io sono colui che cammina con la tenera notte che cresce, io chiamo la terra e il mare per metà occupati dalla notte. Fatti più vicina, o notte dai seni denudati, fatti più vicina magnetica notte che nutri! Notte dei venti del sudnotte di poche larghe stelle! Calma notte chinatafolle e nuda notte d'estate. Sorridi voluttuosa terra dal fresco respiro! Terra di dormienti, liquidi alberi! Terra del tramonto andatoterra delle montagne dalle vette di nebbia! Terra del vitreo scorrere della luna piena tinta di blu! Terra dello splendore e dell'oscurità che screziano l'acqua del fiume! Terra del limpido grigio di nuvole più vivide e più chiare per amor mio! Terra che si stende lontano a gomitoterra ricca di meli in fiore! Sorridi, il tuo amante arriva. Prodiga, tu mi hai dato amoreperciò io a te do amore! Oh indicibile, appassionato amore. Nella prefazione alla prima edizione di Foglie d'Erba, nel 1855 -singolare coincidenza che mi interessa sottolineare: composizione e pubblicazione indicativamente contemporanee rispetto a Baudelaire, nei confronti del quale verrebbe infatti a 42 rappresentare "l'altra versione della modernità" (Conte, 1991, dall'Introduzione) -Whitman scrive "l'universo conosciuto ha un completo amante, e quello è il più grande poeta": la dichiarazione di intenti dell'artista della materia e del profeta della realtà vivificata dall'immaginazione, del cantore "dell'istantaneità, del lavoro, del corpo, dell'eros, del cosmo non meno che dell'America democratica" (ibidem). Restiamo ancora per un momento in America, patria d'origine e paesaggio mentale di Sylvia Plath che quasi cento anni dopo compone invece questi versi di evidente e dolorosa estraneità La faccia devastata Stravagante come un circo equestre, la faccia devastata si esibisce sulla piazza del mercato, vistosa e colpita da un dolore che non trova parole, patetica dall'occhio gocciolante al naso gonfio. Due gambe filiformi barcollano sotto quell'ammasso. Tragicamente paonazza, la bocca stravolta da un gemito, non più capace di star chiusa in casa, al di là di ogni ritegnosono io, sono io!-lugubre, oscena. Meglio la guatata fissa dell'idiota, la faccia di pietra di chi è incapace di sentire, le vellutate manovre dell'ipocrita: meglio, meglio e più accettabili per i bambini timorosi, per la signora incrociata per strada. Oh Edipo, Oh Cristo. Mi trattate male. 19 marzo 1959 nei quali nulla esprime in maniera esplicita la qualifica o la natura di poeta di chi scrive parlando di se stesso, ma che tuttavia con credo legittima inferenza possiamo considerare autoreferenziali riconducendo la sofferenza e l'alienazione dichiarate a una difficoltà esistenziale legata all'attività della scrittura: l'io -"sono io, sono io!" di Sylvia Plath è poeta. "Certi poeti scrivono per vivere: la Plath, per esempio", chiarisce infatti Nicola Gardini introducendo il Meridiano Mondadori dedicato al più celebre per quanto ingombrante marito Ted Hughes (in Hughes, 2008, XII); ma possiamo anche ricorrere direttamente al ritratto postumo che quest'ultimo le dedica nelle Lettere di compleanno, scritte tanti anni dopo il suo suicidio: "Eri come un fanatico religioso / senza un dio -incapace di pregare. / Volevi essere scrittrice" (Il Dio, Hughes, 2008, 1333. Nei versi tradotti da Anna Ravano riconosciamo inoltre chiaramente alcuni motivi che ci sono ormai familiari: "il circo equestre", l'umiliazione del mostrarsi agli altri, l'esposizione allo scherno e all'incomprensione, la goffaggine ridicola delle 43 "gambe filiformi" che barcollano e dunque "impediscono di camminare" proprio come succedeva all'albatros costretto a terra in Baudelaire, se vogliamo chiudere il cerchiouna identica esclusione, l'inadeguatezza e la sofferenza della diversità rispetto alle quali è "meglio" addirittura l'idiozia, l'incapacità di sentire, l'ipocrisia che ci rendono accettabili in una società dove, evidentemente, non c'è posto né per "Edipo" né per "Cristo", nessuna salvezza di sorta nella psicanalisi o nella religione e neppure, si potrebbe pensare, nella famiglia e nell'amore. Torniamo adesso finalmente in Italia per leggere una deliziosa brevissima metapoesia di Sandro Penna -"uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, un poeta sapienzale mascherato da epigrammista delle sensazioni" secondo la presentazione di Cesare Garboli (in Penna, 2000, dalla Prefazione) -tratta da Stranezze, che raccoglie testi scritti a partire dal 1957 Sempre affacciato a una finestra io sono, io della vita tanto innamorato. Unir parole ad uomini fu il dono breve e discreto che il cielo mi ha dato. Fin dal primo verso, ritroviamo, se pur in qualche modo svaporata e addolcita nella leggerezza ipnotica dell'istantanea disegnata dalla quartina, una simile condizione di solitudine e separazione, riconosciamo l'esclusione, di chi guarda -"sempre": è una condizione esistenziale -dalla finestra, osserva dalla distanza proprio la vita, vorrei dire, esplicitando un legame di tipo concessivo, lo stesso così amata. Gli ultimi due versi spiegano poi perché, malgrado questa disappartenenza che abbiamo ipotizzato, il poeta sia "tanto innamorato" della vita, introducendo il motivo del "dono", "breve e discreto" come la qualità formale di questa poesia, e che consiste nella capacità di "unir parole ad uomini", dove naturalmente la parola "uomini" non è certo scelta casuale, ma invece metaforicamente densa se pensiamo all'ossessivo monotematismo omoerotico della scrittura di Penna. Questo dono dato dal cielo, dunque, è precisamente la poesia: nella quale una vita di emarginazione trova il proprio riscatto artistico e innamora di sé il suo protagonista, fino a quando la rima facile, la vita difficile si sovrappongono facendo definitivamente coincidere l'identità con la capacità poetica: e proprio lo strumento della rima con la sua centralità, semantica ma anche grafica e musicale, veicola e sancisce questo fondamentale passaggio autoreferenziale da "io sono" a "il dono": la poesia è il dono e io sono la poesia. 44 Già per Umberto Saba -voce appartata e controcorrente che, rimanendo fedele a una poesia anche metricamente tradizionale fatta di cose umili e quotidiane e di un linguaggio semplice, concreto quando non prosaico, avviò quella linea antinovecentista di cui Penna nella sua scelta antiermetica prese certo a modello il realismo lontano dalla tendenza simbolista -la poesia è esplicitamente "dono", come chiarisce in questo sonetto della sua Autobiografia, apparsa nel 1923, di cui riporto gli endecasillabi a rima alternata della quartina d'apertura Mio padre è stato per me "l'assassino" fino ai vent'anni che l'ho conosciuto. Allora ho visto che era un bambino, e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto. nei quali il "padre", biograficamente colpevole dell'abbandono della famiglia, attraverso la scrittura viene invece riabilitato e quasi giustificato se appunto "visto come personificazione del dono della poesia, capace di sciogliere le amarezze dell'esistenza" (Esposito, 2000, 76). E questa stessa tematica metapoetica consolatoria si esprime nella risoluzione di tipo psicologico della poesia dall'ovvio titolo Il poeta, tratta da Trieste e una donna, del 1910-1912 Il poeta ha le sue giornate contate, come tutti gli uomini; ma quanto, quanto variate! L'ore del giorno e le quattro stagioni, un po' meno di sole o più di vento, sono lo svago e l'accompagnamento sempre diverso per le sue passioni sempre le stesse; ed il tempo che fa quando si leva, è il grande avvenimento del giorno, la sua gioia appena desto. Sovra ogni aspetto lo rallegra questo d'avverse luci, le belle giornate movimentate come la folla in una lunga istoria, dove azzurro e tempesta poco dura, e si alternano messi di sventura e di vittoria. Con un rosso di sera fa ritorno, e con le nubi cangia di colore la sua felicità, se non cangia il suo cuore. Il poeta ha le sue giornate 45 contate, come tutti gli uomini; ma quanto quanto beate! Forse a oggi non troppo convincente nella sua cantabilità discorsiva da filastrocca, in realtà lessicalmente e ritmicamente funzionale a veicolare l'idea di una quotidiana gioiosa convivenza con la poesia dono e occasione che rende accettabile la vita e addirittura "beate" -aggettivo non a caso associato alla dimensione celeste -le giornate del poeta, "contate", come "quelle di tutti gli uomini", ma con in più, forse, "la mia buona / carta lasciata alla fine del mio gioco". Se per curiosità andiamo a cercare anche altrove, in quel Novecentismo che sembra invece la direzione dominante della poesia italiana appunto novecentesca, senza nessuno stupore scopriamo che la poesia è ugualmente "dono", per quanto "tremendo", in Salvatore Quasimodo, autore dai complessi richiami metapoetici, che nel 1936 in Al tuo lume naufrago, all'apice dell'Ermetismo di cui fu con la sua produzione precedente la seconda guerra uno dei maggiori interpreti, e che tuttavia a quest'altezza storica già cominciava a richiudersi su se stesso, scrive Nasco al tuo lume naufrago sera d'acque limpide. Di serene foglie arde l'aria consolata. Sradicato dai vivi, cuore provvisorio, sono limite vano. Il tuo dono tremendo di parole, Signore sconto assiduamente. Destami dai morti: ognuno ha preso la sua terra e la sua donna. Tu m'hai guardato dentro nell'oscurità delle viscere: nessuno ha la mia disperazione nel suo cuore. Sono un uomo solo, un solo inferno. 46 Secondo le aspettative, leggiamo di nuovo di un sofferto sradicamento rispetto alla realtà dei "vivi" ("destami dai morti"), della vana provvisorietà senza consolazione (solo "l'aria", forse, è "consolata") e della condizione infernale dell'essere "un uomo solo" ("ognuno sta solo sul cuore della terra") con la propria pena "di parole" da scontare "assiduamente". Identificando infatti nella parola assoluta la poetica con una forma di misticismo letterario che sconfina appunto nel tormento religioso, Quasimodo celebra nello stesso tempo il trionfo di un linguaggio che "è tutto" (Finzi, 1983, 55) e il mito simbolista della alienazione e della maledizione orgogliosa del poeta, ma "in una civiltà poetica post-romantica che non sa più opporsi con l'orgoglio byroniano dei suoi antenati alla rarefatta solitudine in cui pure egli stesso ha scelto e preteso di vivere" (Pozzi, 1965, 190); per approdare infine all'identica sovrapposizione di identità e poesia: "la poesia è l'uomo", come dichiarerà nel 1953 in uno dei suoi discorsi sulla poesia (in Finzi, 1983, 49). Mentre il "poeta di straccioni" è, negli endecasillabi autoreferenziali di Elemosina (compresa nel manoscritto del 1929-1930 dal titolo ancora dannunziano Notturni del re silenzioso), di nuovo in termini di devozione cristiana, "voce" penitente -infatti da "scarnire": "Tu ridi che per sillabe mi scarno"degli "Ultimi" In povertà di carne, come sono, eccomi, Padre; polvere di strada che il vento leva appena in suo perdono. Ma se scarnire non sapevo prima la voce zingaresca ancora rozza, come idiota che meraviglia lima, ora, se quando mia figura abbozza arco di luna al portico ogivale, vedendomi con gli Ultimi, bocconi, credendo nel disprezzo farmi male mi dicessero: «poeta di straccioni» avidamente tenderei la mano: datemi luce: pane cotidiano. Leggiamo adesso invece una metapoesia -dal solito titolo Poeti -che trovo nella plaquette del 2000 Superba è la notte, dall'ultima fase della produzione di Alda Merini: "Una pazza di razza / nella casa di cura / e nel giardino della letteratura" secondo la descrizione giocosa che ne tratteggia Giorgio Manacorda aprendo le pagine a lei dedicate della sua Antologia (Manacorda, 2004, 318) 47 E tutti noi costretti dentro le ombre del vino non abbiamo parole né potere per invogliare altri avventori. Siamo osti senza domande riceviamo tutti solo che abbiano un cuore. Siamo poeti fatti di vesti pesanti e intime calure di bosco, siamo contadini che portano la terra a Venere siamo usurai pieni di croci siamo conventi che non hanno sangue siamo una fede senza profeti ma siamo poeti. Soli come bestie buttati per ogni fango senza una casa libera né un sasso per sentimento. Da questi versi è sparita la dichiarata vocazione quasimodiana della missione religiosa, se la "fede" è ormai "senza profeti", e non ci sono più le "parole" o il "potere per invogliare altri avventori"; tuttavia rimane evidente una dimensione di dolente mistica privata della scrittura proprio nel valore ancora una volta compensatorio e consolatorio attribuito alla "nera poesia", rispetto a un'esistenza, che sappiamo difficilissima, segnata dalla follia: "In me tutti amano la follia / e io la venero, / straordinario balcone di canto / ma nessuno ama la donna / che si brucia allo specchio". La poesia non avrà paladini e neppure seguaci, mentre "tutti noi" "siamo poeti" "costretti dentro le ombre", "senza domande", "pieni di croci" e "soli come bestie" "per ogni fango"; "ma"l'autoreferenzialità consiste esattamente in questo ma avversativo, e alternativo, che apre il quinario -"siamo poeti": ecco che ne risulta tracciato il nostro percorso metapoetico, alla ricerca di una qualche identità nella scrittura, dalle domande alla risposta, da chi è il poeta a chi sono io? Un poeta 22 . 22 Volevo segnalare anche, a questo proposito, un esempio tra i molti possibili, di metapoesia dialettale. In questi versi di Franco Loi (tratti da Isman, raccolta del 2002), in un dialetto milanese spesso contaminato con altri dialetti, matrici letterarie o neologismi fantasiosi che costruiscono una lingua altra rispetto a quella della realtà, la lingua del sogno, dell'istinto e del profondo, riconosciamo la dichiarazione -molto frequente in termini di autoreferenzialità -dell'intrecciarsi esistenziale di vita e poesia, nel momento in cui la poesia diventa, infatti, libero istinto vitale: "Vèss òm e vèss puèta" Vèss òm e vèss puèta...Cum' i can che bàjen a la lüna per natüra, per la passiensa de stà lì a scultà... Vèss òm e vèss puèta....'Na paüra de vèss un'aria, un bluff...duè murì... 48 Locvizza l'1 ottobre 1916 Sono un poeta un grido unanime sono un grumo di sogni Sono un frutto di innumerevoli contrasti d'innesti maturato in una serra Ma il tuo popolo è portato dalla stessa terra che mi porta Italia E in questa uniforme di tuo soldato mi riposo come fosse la culla di mio padre "Sono un poeta": così dichiarava nella poesia Italia (Il porto sepolto) -per chiudere all'insegna dell'essenzialità con questi versi che sembrano quasi scolpiti nella pietra o lasciati cadere sul foglio -scegliendo efficacemente di usare una sorta di parola primordiale spogliata di tutto e resa un meccanismo significante perfettamente autosufficiente, un giovane Ungaretti poeta e soldato a Locvizza nel 1916, durante la prima guerra mondiale; "sono un poeta". Vèss òm e vèss puèta...Per la scüra del crèss tra j òmm, despèrdess nel patì, per returnà quèl fi'sc de la memoria che la passiensa l'à sparagnâ nel dì. Essere uomo ed essere poeta....Come i cani / che abbaiano alla luna per natura, / per la pazienza di star lì ad ascoltare.../ Essere uomo e essere poeta...Una paura / di essere un'aria, un soffio....dover morire.../ Essere uomo e essere poeta...Per l'oscurità / del crescere tra gli uomini, disperdersi nel patire, / per ritornare quel fischio della memoria / che la pazienza ha risparmiato nel giorno. 49 2.2 Il poeta, cosa canta? contenuto per fare una poesia non ho niente una lingua intera una vita intera una mente intera una memoria intera per fare una poesia non ho niente Ernst Jandl Abbiamo appena osservato l'interrogarsi in versi sulla figura e sull'identità del poeta, attraverso il modularsi delle diverse questioni relative a chi è il poeta, a chi sono io che scrivo e se io sia o no un poeta; come passo successivo proviamo invece a considerare la dimensione metapoetica del contenuto, appunto -per riprendere il titolo della poesia autoreferenziale dell'austriaco Jandl 23 posta in apertura -dell'argomento o degli ambiti semantici che il poeta riconosce e sceglie per la propria poesia, quando non addirittura per la poesia che ritiene tale: ammesso che sia poeta, chi è poeta cosa canta? Ancora una volta mi fa gioco ripartire dal solito Palazzeschi, che in qualche modo, nel suo porsi come apripista -in uno sforzo polemico nei confronti di tutto ciò che precede nel quale secondo alcuni critici piuttosto severi si esaurirebbe di fatto la sua creativitàsembra introdurre la svolta novecentesca 24 con questa metapoesia dall'abituale titolo Poesia, che comincia proprio col darci la percezione del nuovo lungo le coordinate storiche che stiamo ripercorrendo Dal principio di questo secolo la poesia è cambiata ti sfido a riconoscerla cambiata nel midollo delle ossa nella pelle nella polpa di chi la colpa? di chi la fa. 23 Nella traduzione di Luigi Reitani per "Poesia", 89, novembre 1995. 24 E ripercorrerla anche a posteriori, nei termini cioè di una riflessione autoreferenziale ancor più interessante perché retrospettiva, se il testo che presento da Altre poesie disperse e postume è stato infatti scritto sul finire del secolo (si veda Aldo Palazzeschi: Tutte le poesie, a cura di Adele Dei, I Meridiani Mondadori, 1192). 50 Era sul trono come una regina è diventata una donna qualunque una donnicciola un soggetto da marciapiede una bagascia una sgualdrina non ha più la parola che risuona che rimbomba che pareva scendere dal cielo come il fulmine che t'inchiodava sulla seggiola o che ti faceva rimanere con la bocca spalancata come per lo scoppio di una bomba la parola te la senti scivolare col ribrezzo che ti provoca fra le dita il contatto di un'anguilla ti parla con l'eloquio da mercato di una serva. O ti dice delle cose per le quali non basta un professore di matematica a decifrarla. "La poesia è cambiata", ha abbandonato il "trono" sul quale sedeva per diventare adesso una cosa "qualunque": l'istituzione poetica ha perso l'aura per scendere dal piedistallo fin nella quotidianità della vita. "Da questo inizio di secolo" infatti la parola poetica provoca "ribrezzo" come "il contatto di un'anguilla" perché è umile e reale come il pesce 25 che si compra al "mercato", e parla con "l'eloquio" diretto "di una serva": un linguaggio programmaticamente da reinventare per insegnare al secolo che comincia come la poesia possa essere ricercata, contro la tradizione illustre, proprio nell'umile prosa della realtà quotidiana, perfino "in una antica pizzicheria". Nella prospettiva di questo cambiamento o abbassamento formale e contenutistico si fa immediato il confronto con l'antecedente diretto D'Annunzio e proprio la sua, invece, "parola che risuona", "che rimbomba" come "il fulmine" lasciando "a bocca spalancata", la cui presenza possiamo facilmente riconoscere, in funzione contrastiva, per esempio nella roboante metapoesia Le stirpi canore, dall'Alcyone, probabilmente composta nel 1902 -e oggi a dispetto di tanto fervore quasi ridicola, quando il comico è un sublime ormai fuori contesto -
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