Idea del nulla e principio di ragion sufficiente in Kant [article]

Angela Meoli
2017
3. Le antinomie dinamiche della ragione: dalla causa nel mondo alla causa del mondo 174 4. L'Essere necessario e l'abisso della ragione 188 APPENDICE Christian August Crusius, Dissertazione filosofica sull'uso e sui limiti del principio di ragion determinante, comunemente sufficiente 199 Bibliografia 288 Introduzione Il presente lavoro si è sviluppato intorno a due nuclei tematici di grande interesse e rilievo speculativo, l'idea del nulla e il principio di ragion sufficiente in Kant. Sebbene
more » ... ll'opera kantiana non compaia un'esplicita teorizzazione del legame logico-metafisico che unisce i due concetti in esame, né, si riconosce, una tematizzazione specifica dei singoli concetti considerati separatamente -salvo alcuni luoghi che espressamente indicheremo -, si possono, tuttavia, individuare, per un verso, i punti teoretici in cui quei concetti si incontrano, per un altro, i significati specifici in cui si manifestano. L'indagine svolta dimostra, infatti, l'impossibilità di elaborare un discorso univoco e, di contro, la necessità di articolarlo in relazione ad ambiti ben distinti di riferimento in cui quei due concetti prendono forma. Senza alcuna pretesa esaustiva, ritengo si possono individuare almeno quattro significati del principio di ragion sufficiente -morale, logico, reale e metafisico -e, analogamente, può dirsi del concetto del nulla il quale compare sotto forme diverse e secondo modalità specifiche che andranno di volta in volta chiarite. Un'idea generale, più profonda e radicale, unisce però la molteplicità di questi concetti e traspare, a mio avviso, da un'interna tensione del pensiero kantiano che, pur nella sua problematicità e complessità, sembra propendere sempre verso l'affermazione dell'essere e non del nulla. Si tratta di una tensione che diviene, in fase precritica, quasi un'esplicita lotta al nichilismo e matura, in fase critica, come esigenza dell'incondizionato, sebbene dal punto di vista teoretico nulla può essere dimostrato di ciò che trascende l'esperienza fenomenica. Considerata la complessità dell'argomento, ho ritenuto essenziale seguire una prospettiva di carattere storico-teoretico che, ad un'indagine genetica dei concetti in esame, contestualizzati in rapporto all'evoluzione del pensiero kantiano dal periodo precritico a quello critico, unisce una ricerca speculativa che problematizza, spesso con sforzo ermeneutico in mancanza di riferimenti espliciti, il contenuto di quei concetti. Assunto il punto di vista indicato, ho articolato il lavoro in quattro capitoli con l'aggiunta di un'appendice nella quale è esposta la traduzione, da me realizzata, in lingua italiana, della dissertazione latina di Christian August Crusius, De usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo sufficientis (Lipsia, 1743), che, come si vedrà più analiticamente, ha avuto un ruolo rilevante nella genesi del concetto kantiano del principio di ragion sufficiente. Ed è questa la motivazione principale dell'attenzione rivolta al rapporto Kant-Crusius, oggetto del primo capitolo del presente lavoro nel quale 5 si discute il contenuto della dissertazione crusiana parallelamente all'esame della Nova Dilucidatio (1755), il cui referente principale sembra essere proprio Crusius. Non a caso, la dissertazione kantiana si inserisce nel contesto di un vivace dibattito rispondendo alle obiezioni di Crusius a Wolff sul tema del rapporto tra libertà e principio di ragion sufficiente. Oltre a questioni più specificamente gnoseologiche concernenti l'uso e la funzione del principio di ragione, la discussione ha, quindi, inevitabilmente implicato una riflessione sul problema della libertà che diviene, in questo contesto, centrale soprattutto per la determinazione di un significato morale del principio di ragione in Kant, maturato proprio in opposizione alla soluzione crusiana del problema della libertà. Nel tentativo di rilevare, per quanto possibile, gli aspetti che, per un verso, accomunano, e, per un altro, distinguono il pensiero crusiano da quello kantiano, si è dato ampio spazio alla critica che Crusius rivolge, nella sua dissertazione, alla dimostrazione wolffiana del principio di ragion sufficiente, esaminando analiticamente i passaggi logici che hanno portato il filosofo a confutare la validità di quella dimostrazione e a dichiarare, da un lato, l'indimostrabilità del grande principio, dall'altro, i limiti della sua applicazione. Conclusione che si accorda con l'esigenza, sempre più impellente in Crusius, di distaccarsi dall'orizzonte formalistico e deterministico della gnoseologia wolffiana, nonché con la sua preoccupazione di ordine etico di salvaguardare la libertà del volere dai pericoli che un'estensione illimitata del grande principio avrebbe comportato. Il carattere necessitante del principio di ragione è valido, a giudizio di Crusius, soltanto in riferimento alle cose fisiche, soggette appunto ad una ragione determinante -denominazione che si afferma proprio con l'opera crusiana nella quale all'espressione diffusa di "ragion sufficiente" si sostituisce quella di "ragion determinante" -, ma non in rapporto alle azioni umane, per le quali valgono, invece, ragioni morali soltanto sufficienti nel significato di condizioni sufficienti a produrre liberamente la realtà di un'azione. Il discorso sulla libertà del volere si presenta, per certi versi, complesso e caratterizzato da una serie di distinzioni interne al concetto stesso di libertà -come la distinzione tra libertas contradictionis e libertas contrarietatis -, ma tutte culminanti, a mio avviso, in quella che per Crusius rappresenta la libertà perfetta, ovvero la libertas indifferentiae o aequilibrii. Nella Nova Dilucidatio Kant ha ben presente i contenuti di questa discussione e sembra porsi, contro gli esiti deterministici della concezione wolffiana, in una prospettiva di continuità, almeno per ciò che concerne la necessità di limitare l'uso del grande principio e di articolarlo in relazione ad ambiti specifici di riferimento, con il pensiero crusiano. Kant, infatti, che da Crusius deriva la stessa denominazione del principio, completa la 6 risposta crusiana al problema dell'ambiguità del grande principio introducendo la distinzione tra ragione antecedentemente determinante -ratio cur o ratio essendi vel fiendi -e ragione conseguentemente determinante -ratio quod o ratio cognoscendi. Ma se questa distinzione, da cui deriva una prima articolazione del principio in un senso logico e reale -nell'accezione di causa (Ursache) riferibile all'ordine delle esistenze contingenti -, in linea di principio si accorda con il pensiero di Crusius, non può dirsi allo stesso modo per ciò che concerne il problema della libertà del volere. In opposizione alla libertà di indifferenza di Crusius, Kant rivendica un significato morale del principio di ragione, senza con ciò giungere alla concezione di un determinismo assoluto. Ogni agire libero presuppone, infatti, nella prospettiva kantiana, una ragione determinante nella misura in cui questa ragione non è esterna, ma interna al soggetto agente -l'uomo -che diviene, pertanto, l'autore consapevole e responsabile di ogni sua azione. In tal caso l'azione sarà sì determinata, ma ad un tempo compiuta volontariamente. Crusius, a giudizio di Kant, non ha centrato il problema soffermandosi sulla necessità intrinseca dell'azione piuttosto che sull'origine causale dell'azione stessa. Se avesse posto l'attenzione sul donde derivano le azioni libere, avrebbe certamente compreso che è l'uomo, in quanto essere razionale, la causa determinante di ogni suo agire. Proseguendo, la discussione nel secondo capitolo si è articolata soprattutto rispondendo all'esigenza di fare emergere il significato metafisico del principio di ragion sufficiente, strettamente legato, sotto tale riguardo, alla tematica del nulla, come la domanda leibniziana, "perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?", pone lucidamente in evidenza. Questa domanda ontologica fondamentale ha implicato una riflessione sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio che, negli scritti precritici cui si è dato attenzione, trova una certa unità di pensiero, tranne in quei luoghi esplicitamente distinti e legati al processo di evoluzione e di sviluppo del pensiero kantiano. Fin dalla Nova Dilucidatio, la distinzione tra contingente e necessario, fondata sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio, quale unico essere cui compete un'esistenza assolutamente necessaria, ha introdotto una difficoltà teoretica legata all'impossibilità di riferire a Dio il principio di ragion determinante. Sebbene si riconosca, come Kant fa giustamente emergere, che in rapporto a Dio, non si dà alcuna ragione antecedentemente determinante, né si può fare ricorso al concetto di causa sui ritenuto contraddittorio, è possibile, a mio avviso, avanzare l'ipotesi di un altro significato del principio -distinto da quello reale e temporale -che giunge a giustificare l'esistenza necessaria di Dio sul fondamento dell'impossibilità di pensare l'opposto. Dal fatto cioè che l'opposto, ovvero il nulla assoluto è impossibile, si deduce che Dio deve esistere necessariamente. In ciò è rinvenibile la ragion sufficiente 7 dell'esistenza necessaria piuttosto che del nulla, ragione che, però, Kant interpreta soltanto come ratio cognoscendi e che, a mio avviso, potrebbe, invece, valere come ratio essendi là dove si consideri che la posizione dell'essere supremo, proprio in quanto esistenza assoluta e necessaria, esclude già da sé tutto ciò che è opposto alla sua determinazione completa. È possibile cioè, a mio avviso, riabilitare il concetto di causa sui, da Kant negato, purchè si interpreti la causa come ragione metafisica e non come causa reale, pena la contraddizione. Nell'Unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763), nel quale Kant prosegue ulteriormente in quel processo di separazione tra il piano logico del concetto e il piano reale dell'esistenza (absolute Position o Setzung), a sostegno dell'affermazione dell'essere piuttosto che del nulla, sembra ritrovarsi il criterio, già sottolineato nella Nova Dilucidatio, dell'impossibilità di pensare l'opposto, sebbene, in questo contesto, l'impossibilità viene più distintamente spiegata in rapporto alla distinzione tra il formale e il materiale della possibilità: è assolutamente impossibile che non esista nulla affatto giacché se non esiste nulla, neppure è dato nulla che sia pensabile e, in tal caso, ogni possibilità viene negata. Il nulla diviene in questo senso, logicamente e realmente impossibile, condizione che, di contro, conduce ad affermare che qualcosa esiste. Questa affermazione viene, peraltro, rafforzata e dimostrata nella prova ontoteologica dell'esistenza di Dio, da cui si conclude che esiste un ens realissimo cui compete assoluta necessità reale (absolute Realnothwendigkeit) e sul quale si fondano la possibilità e l'esistenza di tutte le altre cose. Dio è il fondamento reale (Realgrund) da cui tutto dipende e, come tale, non può essere negato. È, infatti, impossibile negare ciò su cui si fonda la possibilità di ogni possibile. "L'unico argomento" si ripresenta nelle sue linee essenziali anche nell'Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale (1764), scritto vicinissimo nel tempo al Beweisgrund e nel quale Kant ribadisce l'impossibilità logico-ontologica del nulla, derivante non tanto da una mera contraddizione interna al suo concetto, quanto dal fatto che la posizione effettiva del nulla implicherebbe la soppressione di ogni possibilità, inclusa quella del suo stesso concetto. È, dunque, impossibile che nulla sia. E da questa impossibilità assoluta il filosofo conclude all'esistenza dell'essere necessario. Un'esposizione più articolata del concetto del nulla si trova, invece, nel saggio precritico del 1763, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, dove alla distinzione più esplicita tra nihil negativum irrepraesentabile e nihil privativum, repraesentabile, derivata dai due tipi di opposizione da Kant esaminati, quella logica e quella reale, si aggiunge un significato meno esplicito del nulla, per un verso, da 8 riguardare in rapporto al problema dell'esistenza di Dio, che in questo contesto si presenta in una prospettiva diversa da quella sopra analizzata, per un altro, in rapporto alla distinzione tra causa logica e causa reale. Quanto alla prima questione Kant afferma che Dio non ammette alcuna causa di privazione: la pienezza e l'assoluta positività che appartengono alla sua natura escludono ogni negazione. In questo senso, la ragione sufficiente dell'esistenza di Dio dovrebbe trovarsi nella pienezza di realtà che caratterizza la sua natura e che implica l'esclusione assoluta del nulla. Più problematica è, invece, la distinzione tra causa logica e causa reale derivata dall'esigenza di giustificare l'ambito concreto del divenire. Con il concetto di causa logica (logischen Grund) che, a mio avviso, andrebbe meglio tradotto con ragione logica, si individua una relazione di Grund und Folge, di principio e conseguenza, comprensibile del tutto a priori secondo il principio di identità. La causa reale (Realgrund), invece, implica una relazione con il diverso da sé, per cui l'effetto che pone non è una mera conseguenza logica deducibile analiticamente. Come, quindi, spiegare il passaggio dal non essere all'essere, proprio del divenire, se sul piano reale non si verifica alcuna opposizione di natura logica, l'unica che potrebbe giustificare il concetto di nihil negativum? Kant si vede così costretto, per un verso, a riconoscere l'impossibilità di ridurre la causa reale al principio logico di non contraddizione -problema che resterà aperto fino allo sviluppo critico del suo pensiero -, per un altro, ad escludere il nulla assoluto dall'ambito concreto del divenire che ammette, invece, solo negazioni reali e relative. Nella Dissertazione del '70, che conclude il secondo capitolo del mio lavoro, il problema della causalità è stato considerato in una duplice prospettiva che se, da un lato, coinvolge l'uso reale dell'intelletto, dall'altro, rinvia alla questione metafisica dell'origine causale del mondo e, dunque, a Dio. Si è avuto modo, quindi, di fare emergere un primo, sebbene non sviluppato, riferimento alle categorie, messo in luce in rapporto all'uso reale dell'intelletto, i cui concetti non sono né empirici né innati, ma «astratti dalle leggi insite nella mente (prestando attenzione alle sue azioni in occasione dell'esperienza) e, perciò, acquisiti 1 ». La causalità viene da Kant indicata come uno di questi concetti acquisiti, insieme alla possibilità, alla necessità, alla sostanza, con i loro opposti e correlativi. Manca, senza dubbio, la teorizzazione della deduzione metafisica e della deduzione trascendentale delle categorie, ma il filosofo aveva già intuito che per ricavare 1 E. Kant, La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in Dissertazioni latine, a cura di I. Agostini, Bompiani, Milano 2014, p. 243; I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in Kant's Gesammelte Schriften, hrsg. von una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe resa superflua da una più antica (1790), in cui il filosofo risponde agli attacchi del leibniziano A. J. Eberhard il quale, nel «Philosophisches Magazin», la rivista filosofica da quest'ultimo fondata nel 1788, critica aspramente alcuni dei concetti essenziali della filosofia kantiana e, tra questi, quello del principio di ragion sufficiente. Nella replica a Eberhard, Kant chiarisce il significato logico del principio di ragion sufficiente in base al quale si afferma che ogni proposizione deve avere un fondamento. Trattandosi di un fondamento (Grund) logico, il principio risulta sufficiente soltanto alla determinazione dei giudizi analitici, ma non può fondare la possibilità dei giudizi sintetici in generale. Di conseguenza il giudizio sintetico a priori secondo cui "tutto ciò che accade ha la sua causa" non può essere giustificato in rapporto ad un fondamento logico, ma richiede, per essere dimostrato, il riferimento all'intuizione sensibile. Il concetto di causalità (Begriff der Causalität), sul quale si fonda il significato reale del principio di ragion sufficiente, viene, così, nettamente distinto dal concetto di fondamento (Begriff des Grundes) in generale. Quanto al concetto di causalità, si è data particolare attenzione alla sua deduzione, sia metafisica che trascendentale, giustificando, per un verso, la sua natura di concetto a priori dell'intelletto -mediante l'accordo con la forma logica del giudizio ipotetico -, per un altro, la sua applicazione ai dati sensibili dell'esperienza. Questa applicazione, mediata dallo schema della successione, dimostra l'oggettiva validità del concetto di causa e, quindi, della legge causale che su quel concetto si fonda e trova la sua verifica gnoseologica nella seconda analogia dell'esperienza, principio valido nell'ambito delle relazioni tra i fenomeni e secondo il quale si afferma che: «Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto 2 ». Ed è proprio in questa legge che Kant riconosce il significato reale e oggettivo del principio di ragion sufficiente che, valido nell'ambito fenomenico, non può avere alcuna applicazione metafisica. Tuttavia questa conclusione soddisfa solo parzialmente il discorso sul principio di ragion sufficiente che pure, sebbene in un significato diverso, può avere un'estensione oltre l'ambito dell'esperienza. Si ponga attenzione al fatto che i limiti a cui è vincolato il conoscere non sono gli stessi limiti a cui è vincolato il pensare, rispetto al quale il conoscere stesso è solo una determinazione. Proprio per tale ragione ho ritenuto necessario separare la categoria di causa dalla sua determinazione temporale -tutte le cose (1794) a proposito dell'eternità, ha in sé qualcosa di attraente e terrificante al tempo stesso. Come, infatti, sostenere che Dio, fondamento di tutte le cose, si interroghi sul suo stesso fondamento? L'ulteriorità della domanda apre un processo inarrestabile che culmina nell'ipotesi del nulla assoluto. Questo è il luogo in cui la ragione speculativa manifesta la sua totale impotenza al punto da negare ogni ragione, ogni fondamento. Rappresenta, a mio avviso, il collasso stesso del principio di ragion sufficiente, condizione che potrebbe avallare l'ipotesi di una "teoria del senza fondamento", a cui non sarebbe errato aggiungere interpretazioni che potrebbero sfociare nella mistica. Ma forse, in questo senso, siamo già oltre lo spirito del criticismo che richiama pur sempre alla modestia piuttosto che all'esaltazione della ragione. 14 CAPITOLO I LIBERTÀ E PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE NELLA NOVA DILUCIDATIO: LA RISPOSTA KANTIANA ALLE OBIEZIONI DI CRUSIUS A WOLFF 1. Indimostrabilità e limiti del principio di ragion sufficiente in Crusius La dissertazione latina del 1755, Nuova delucidazione dei primi principi della conoscenza metafisica, rappresenta, a mio avviso, il primo scritto strettamente metafisico nel quale il filosofo discute circa il significato del grande principio inserendosi nel contesto di un vivace dibattito nel quale già sembrava delinearsi una decisiva rottura con i presupposti concettuali del sistema leibniziano-wolffiano. Non è un caso, infatti, che il referente principale della dissertazione sopra citata sia Christian August Crusius 3 , uno dei più noti oppositori di Wolff e della scuola wolffiana, autore del De usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo sufficientis (Lipsia, 1743). Quest'opera è, a mio avviso, di fondamentale importanza non soltanto perché, in una prospettiva storicofilosofica, individua un passaggio cruciale dell'evoluzione concettuale del principio di ragion sufficiente nella filosofia moderna -non opportunamente considerato nel panorama della letteratura critica e della storia della filosofia −, ma anche perché agisce come uno dei fattori determinanti, in direzione antiwolffiana, nella genesi della stessa speculazione kantiana sul grande principio 4 . Per tale ragione è necessario comprendere, almeno nei suoi aspetti teoretici essenziali, il contenuto della dissertazione crusiana sul principio di ragion sufficiente che si oppone polemicamente allo sterile formalismo della gnoseologia di Wolff e al determinismo della sua metafisica deduttiva. La riflessione di Crusius, infatti, si articola essenzialmente intorno a due questioni fondamentali, una di ordine conoscitivo, l'altra di ordine etico. Per ciò che concerne la prima, si avverte 3 Il pensiero di Christian August Crusius (1715-1775) appare come il più maturo sviluppo di una direzione speculativa che, pure se concepita nello stesso orizzonte illuministico, era riuscita ad affermarsi come un'alternativa credibile a quella wolffiana. Come ricorda N. Merker, Crusius può essere inserito nella cerchia di quegli Aufklärer di ascendenza thomasiana, cui appartenevano anche Rüdiger, Hoffmann, A. F. Müller, i quali, soprattutto sul terreno della logica e della teoria della conoscenza, si erano «acquistati non lievi meriti nel correggere con iniezioni empiristico-sensiste l'edificio formalistico della logica e gnoseologia wolffiana», in N. Merker, L'illuminismo tedesco, Laterza, Bari 1974, p. 257. 4 Per le ragioni indicate, seguirà in Appendice la traduzione, da me realizzata, in lingua italiana della dissertazione crusiana De usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo sufficientis. 8 C. Wolff, Metafisica tedesca, con le Annotazioni alla metafisica tedesca, a cura di R. Ciafardone, Bompiani, Milano 2003, § 30, p. 79. 9 Chr. A. Crusius, De limitibus, cit., § XI, p. 208; Sulla critica di Crusius alla dimostrazione wolffiana del principio di ragion sufficiente si veda R. Ciafardone, L'illuminismo tedesco. Metodo filosofico e premesse etico-teologiche (1690-1765), Il Velino, Rieti 1978, pp. 117-122; Id., L'illuminismo tedesco, Loescher, Torino 1983, pp. 71-73. 10 Chr. A. Crusius, De limitibus, cit., § XI, p. 209. 11 Ibidem; Seguiamo la traduzione del sillogismo data da R. Ciafardone in Id., L'illuminismo tedesco. Metodo filosofico e premesse etico-teologiche (1690-1765), cit., p. 120. implica necessariamente la falsità dell'altra (tertium non datur). Occorre però precisare che le determinazioni opposte comportano tale meccanismo escludente -o l'una o l'altra -solo in quanto si riferiscono ad un medesimo soggetto nel medesimo tempo e sotto il medesimo riguardo 14 . La relazione causale, invece, individua un rapporto reale tra cose del tutto differenti ed aventi, inoltre, una collocazione temporale diversa considerando che l'effetto segue sempre nel tempo la causa che lo ha prodotto. È possibile rintracciare in questa separazione del piano logico da quello reale un primo tentativo di superare l'ambiguità che lo stesso Crusius aveva rilevato del principio di ragion sufficiente -«ob ambiguitatem vocabuli rationis» 15 -indicante indistintamente sia i principi della conoscenza, sia quelli dell'essere, ovvero sia l'Idealgrund, sia il Realgrund 16 . La mera ragione logica, infatti, esaurisce il suo campo di applicazione nell'indagine delle relazioni di conseguenza logica tra i concetti che può essere effettuata del tutto a priori in virtù del principio di non contraddizione. Quest'ultimo, però, non può più valere come principio di deduzione dell'intero campo del reale e da questo punto di vista è una proposizione del tutto vuota 17 . Quando, infatti, pensiamo ad una cosa esistente non indichiamo con ciò un mero completamento della possibilità 18 , ma qualcosa di cui si può affermare un ubi e un 14 Si tenga presente la definizione aristotelica secondo cui «è impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto», Aristotele, La Metafisica, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2005, Libro IV, 1005 b15-20, pp. 272-273. Sul significato del principio di non contraddizione nella storia del pensiero filosofico si veda E. Berti et al., La contraddizione, Città nuova, Roma 1977; E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L'Epos, Palermo 1987; Per ciò che concerne, invece, il rapporto tra principio di non contraddizione e principio di ragion sufficiente considerato nel quadro più ampio della polemica di Crusius con l'ontologia wolffiana, si veda E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi,
doi:10.6093/unina/fedoa/11692 fatcat:5xxztngbvrgopcyj2betnhs3li