L. ŠESTOV, Shakespeare e Turgenev, Bompiani, 2010

Maria Merante
2014
Shakespeare e Turgenev raccoglie i primi due lavori di Šestov -invero molto diversi tra loro -, in cui l'autore è impegnato per la prima e ultima volta su questioni squisitamente letterarie. In essi non è presente un'esplicita riflessione filosofica, perciò è compito dell'interprete rilevare quei motivi tipici della filosofia tragica šestoviana che qui si trovano in uno stato ancora embrionale. Nel primo saggio, Shakespeare e il suo critico Brandes, Šestov accusa quest'ultimo di avere frainteso
more » ... il senso dei lavori shakespeariani, nella misura in cui li apostrofa come pessimisti ed ingenui, convincendosi perciò, in maniera inopportuna, che «il compito del poeta consista nel profondersi lamentosamente nei suoi versi, e quello del critico letterario nel ripetere il poeta» (p. 741). Tra i 'figli' di Shakespeare va annoverato in primis Amleto, il quale, paragonando il mondo ad un «giardino abbandonato», dimostra la sua lacerazione interiore dichiarando fedeltà eterna alla tragedia. Il principe di Danimarca è il massimo esempio del risveglio edificante di colui che si desta dopo essere stato vittima di un profondo torpore. Egli, come Bruto, Lear e Macbeth, si trova davanti ad una serie di aut-aut in cui gli effetti della scelta diventano irreversibili, come dimostrano i loro monologhi, prova di come i protagonisti siano sempre in balia di tormenti estremi. D'estremo rilievo è il fatto che Šestov prenda in esame la totalità delle opere shakespeariane, poiché, nella sua ottica i personaggi di Shakespeare sono legati non solo al loro creatore, ma al genere umano tutto. Una prospettiva differente, quindi, da quella 'astratta' di Vygotskij, per il quale l'Amleto va analizzato come opera a sé stante. Un leitmotiv dei testi šestoviani è il paradosso, che il pensiero non deve temere di far sorgere, tentando di ammorbidire gli animi. Né si possono eludere domande fondamentali quali «essere o non essere?», pendant di un'altra frase pronunciata da Amleto «The time is out of joints: / O cursed spite. That ever I was born / to set it right» (Hamlet, atto I, scena IV). Probabilmente, dopo aver letto questa tragedia, Šestov fu spinto a chiedersi «Cosa si può fare, cosa si può intraprendere di fronte agli orrori dell'esistenza?». Sisifo, condannato a far rotolare un macigno per l'eternità, incarna perfettamente tale assurdità, perché ha consapevolezza della sua azione. Sisifo ricorda Amleto, il quale «ha una coscienza ma questa non lo ispira, anzi non fa altro che tormentarlo. La coscienza non è la sua guida, ma piuttosto un giudice, un nemico, un boia. E davanti ad essa Amleto non ha il coraggio di non inchinarsi» (p. 279). Egli non riesce a non chinare il capo verso la coscienza considerata il giudice supremo, tuttavia egli non può rimuovere l'esistenza del demone che lo tortura in silenzio. La tragedia consiste propriamente in ciò: sapere d'essere prigionieri della ragione, ma non poter far nulla per liberarsene, perché la paura di restare senza una percorso prestabilito che c'indichi un sicuro cammino è più forte dello stesso senso di costrizione. I personaggi tragici hanno vissuto esperienze che li hanno portati al limite della ragione, mutilandone l'anima. Sul loro volto è facilmente rintracciabile que-
doi:10.6093/1593-7178/2765 fatcat:3vcght5rdnewddb4mth54fwfhy